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GLADIO.... LA VERA STORIA DI UN GLADIATORE

Post n°95 pubblicato il 11 Giugno 2006 da francois007
Foto di Mi.st.eri

Roma, aprile 2004. “ Nel 1986 ci hanno cancellato: qualcuno aveva deciso che di noi non doveva restare alcuna traccia. Ricordo che, quando mi accorsi che le cose stavano cambiando, andai a Roma, da Labruna, l'ufficiale che mi aveva reclutato in Gladio. «Sparisci Franz - mi disse -, dimenticati di tutto quello che sai e di tutto quello che è successo. Pensa solo a te stesso e salvati». E io seguii il suo consiglio. Così mi inabissai in una vita anonima e tranquilla. Se si può dire, regolare. Ma dimenticare non è stato facile. Perché, anche se non lo vuoi, ti porti dentro ricordi ed esperienze che ti segnano per sempre. Non capisco le oscure dinamiche della politica, ma non posso accettare che vengano negati fatti per i quali ho anche rischiato la pelle. Questo no. Ora sento l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga dire che quello delle Brigate Rosse è stato un fenomeno tutto italiano. Ma io dico: come si fa a dire questo! Dove sono finiti tutti i nostri rapporti, i documenti che abbiamo trafugato da Praga e quelle fotografie che provavano i viaggi dei brigatisti rossi in Cecoslovacchia nei campi di addestramento di Carlovy Vary e di Brno? Ho letto sui giornali che stanno processando a Roma alcuni alti ufficiali dei servizi segreti per la distruzione di documenti riservati. C'erano forse anche quelli che io e altri gladiatori abbiamo portato dalla Cecoslovacchia? Il nostro lavoro non era semplice. Non è come nei film, dove tutto appare semplice, supertecnologico, avventuroso. Almeno a quei tempi, la realtà era molto diversa. Si lavorava senza rete e con pochi supporti. Ti dicevano: «Vai, la missione è questa. Fatti onore». E tu allora dovevi ingegnarti, arrangiarti. Le nostre vere armi erano la nostra fantasia e la nostra capacità di improvvisazione e di adattamento. Sempre sul filo del rasoio. Avevamo due punti di riferimento per conoscere i viaggi in Cecoslovacchia dei brigatisti rossi: l'ambasciata ceka a Roma e il confine tra Italia e Austria. Lì, infatti, i terroristi chiedevano il visto d'ingresso e noi ci mettevamo in movimento. Organizzavamo così un servizio di pedinamento e di sorveglianza, molto complicato per non farci notare. Era come una staffetta. Gli agenti dovevano seguire i brigatisti per un tragitto determinato, poi li lasciavano, affidandoli al controllo di altri agenti. Ma il programma poteva anche variare se si aveva la sensazione di essere stati notati. La loro strategia di mimetizzazione era abbastanza semplice: quasi sempre fingevano infatti di essere dei turisti. Una volta abbiamo seguito due brigatisti che viaggivano su una Ferrari targata Catania. Sembra incredibile, vero? Ma chi avrebbe mai pensato che non si trattava di due turisti danarosi, ma di due terroristi? Io li seguivo spesso oltre i confini ceki, cioé in quella che era la mia zona di operazioni. Sono così arrivato fino ai cancelli e alle reti di recinzione dei campi di addestramento, che ufficialmente venivano indicati dai cartelli come centri termali. Solo che là non c'erano turisti. C'erano invece terroristi che arrivavano da mezzo mondo: tedeschi della Raf (Rote armee fraktion), brigatisti rossi, libici e palestinesi. La regia, manco a dirlo, era tutta del Kgb. La polizia segreta ceka era infatti soltanto una sigla: tutto era in mano ai russi. E devo ammettere che loro erano i migliori, i più preparati, i più abili. All interno del nostro servizio segreto non avevamo una grande considerazione degli americani, tutto dollari e muscoli. I russi, invece, erano diabolici, capaci di strategie raffinatissime. All'interno del servizio segreto chiamavamo infatti la Lubjanka l'«Università». Comunque noi, nel nostro piccolo, non eravamo da buttare via. Per esempio, questi movimenti dei brigatisti siamo riusciti a scoprirli e a documentarli. Anche se oggi, stranamente, non si trova traccia del nostro lavoro. Tutto era cominciato con l'arresto di Alberto Franceschini nel 1974. Si scoprì infatti che sul suo passaporto c'era il visto d'ingresso per la Cecoslovacchia. Lui, naturalmente, disse di non saperne niente. Ovviamente il Sid cominciò a indagare sui possibili rapporti tra le Brigate Rosse e la Cecoslovacchia e noi di Gladio trovammo presto la conferma. Non solo: riuscimmo anche a documentare questo rapporto e a monitorare gli spostamenti dei terroristi rossi. Vede, uno dei motivi per i quali preferisco mantenere l'anonimato è che le Br esistono ancora. Per me non sono mai morte. Temo quindi qualche ritorsione. Ripeto: non ho paura per me, ma per la mia famiglia che, con tutte queste storie, non c'entra proprio niente. Se avevo paura? Certo, e tanta. Non era mica uno scherzo entrare e uscire da quella frontiera. Non è come oggi. Allora c'erano sbarre, reti elettrificate e cavalli di frisia. Al momento dei controlli finivi in una sorta di gabbia, chiuso tra due sbarre e con gli uffici della polizia di frontiera e della polizia segreta da una parte e dall'altra. Quei momenti duravano un'eternità. Non sapevi mai, infatti, se riuscivi a farla franca o finivi nella loro rete con l'accusa di spionaggio. E il rischio era davvero alto: il plotone di esecuzione... Una volta ho temuto davvero che finisse male. Ricordo che avevo ricevuto l'ordine di far espatriare immediatamente due dissidenti. «Ma come faccio - dissi - ho bisogno di tempo, devo procurarmi i passaporti falsi». «Usa i tuoi documenti» fu l'unica risposta. Non avevo scelta. Allora rubai il passaporto a un mio amico che portavo spesso con me a Praga come copertura. Lui, poverino, non sapeva nulla di me. Li contraffacemmo e li passammo ai due dissidenti che vennero presi in carico da altri gladiatori a Ceske Budejovice, vicino al confine austriaco. Io mi presentai alla polizia di quella città e denunciai il furto dei due passaporti. «Qui non ci sono ladri» mi rispose gelido un ufficiale, che seppi dopo essere dei loro servizi segreti. Senza molta diplomazia mi fece capire che non mi credeva. Ci fermarono. Rimanemmo in una caserma per 24 ore. Loro cercarono di farci saltare i nervi in tutti i modi e il mio amico, poveretto, era convinto che finisse male. «Dio mio - mi diceva - questi non ci credono». E io, che non potevo dirgli niente, lo rassicuravo: «Ma no, vedrai, sono sempre molto sospettosi». Alla fine ci lasciarono andare, ma mai come quella volta ho temuto di essere scoperto. A Praga mi appoggiavo a un veterinario. Era un dissidente e collaborava con noi. Mi fece installare nel suo ambulatorio una sedia da dentista dove curavo la gente. Il "dottore italiano" diventò così per molti una sorta di amico e di confidente. Quell'ambulatorio divenne la mia centrale operativa. Era un'ottima copertura per il mio lavoro di agente segreto. Fu per me un'esperienza importante anche perché cementò le mie convinzioni: vedevo un popolo schiacciato dalla paura, con il ricordo ancora molto vivo dei carri armati russi che avevano spazzato via la primavera di Praga di Dubcek. E quando entravo nei loro negozi spogli e tristi pensavo: «Non voglio che miei figli vivano in un mondo come questo». Poi c'era lei. La donna della quale mi ero innamorato. Come ho già detto, era la figlia di un ufficiale della Stasi, i servizi segreti della Germania dell'Est. Divenne mia complice e mi aiutò moltissimo a recuperare informazioni preziose per il servizio. Lei lavorava in una specie di organizzazione per lo sport popolare. Alla fine, però, la scoprirono. Le ritirarono il passaporto e la rispedirono in Germania, nella sua città vicino a Brema. Non la rividi più. Cercai in tutti i modi di sentirla, di raggiungerla e di portarla via, in Italia. Ma non ci riuscii. Di lei non so più nulla, non so neppure se è ancora viva. Qualche anno fa sono stato in Germania, nella sua città. Addirittura davanti a casa sua, ma non ho avuto il coraggio di suonare il campanello. Ho preferito che restasse un dolce ricordo.
Franjz racconta di aver incontrato l'ex presidente del Consiglio Bettino Craxi nel 1997 nel suo rifugio di Hammamet, in Tunisia. In poche ore racconta una vita. Anni "bruciati" pericolosamente in un mondo di ombre che, quindici anni fa, qualcuno ha voluto cancellare. Lui, il gladiatore sardo che si nasconde dietro il nome in codice "Franz", racconta in una piccola trattoria romana la sua vita segreta di "barba finta": infiltrato dietro la cortina di ferro negli anni Settanta e poi spedito nella Libia di Gheddafi. «Non è stato facile decidere di parlare. E' vero: l'ho fatto perchè non si perda la memoria di quanto abbiamo fatto noi gladiatori. Ma anche perché mi hanno convinto due amici ed ex compagni di strada come Nino Arconte e Tano Giacomina. Molti uomini della nostra struttura segreta sono infatti morti misteriosamente o finiti in guai incredibili. Come se una "manina" stesse cercando di eliminare ogni prova di quanto abbiamo fatto». Arconte è l'agente G.71 che, nelle scorse settimane, ha raccontato la sua vita di 007 nella Gladio supersegreta che agiva all'estero, all'interno di una strategia Nato. Giacomina, anche lui sardo, è morto invece nel 1998. «Doveva andare con Arconte negli Stati Uniti per chiedere asilo politico, ma non partì mai: un pesante gancio di metallo lo uccise a Capo Verde, proprio il giorno prima di imbarcarsi per New York». "Franz", che oggi fa il dentista, è l'uomo che ha cercato di legittimare la Gladio supersegreta, chiedendo aiuto a un ex presidente del Consiglio «che naturalmente sapeva tutto»: Bettino Craxi. «Nel 1997 - racconta l'ex 007 - andai in Tunisia. Il pretesto era un congresso internazionale di odontoiatria. Avevo in tasca una lettera di Arconte e di Giacomina che chiedevano a Craxi di intervenire e di rendere pubblica la storia della Gladio militare delle centurie. L'ex presidente del Consiglio era in Tunisia un vero dominus. Tanto che la gente diceva: "Bel Alì è il presidente. Craxi è molto di più". E non ci voleva molto a capire perché. Craxi era stato infatti l'ispiratore di quel "golpe morbido" che servì ad abbattere Bourghiba e a portare al potere proprio Ben Alì. Un colpo di Stato che, voglio ricordare, era stato organizzato dalla nostra struttura. Alla fine anche l'ex numero uno del Sismi, l'ammiraglio Fulvio Martini, ha dovuto ammettere, davanti alla Commissione stragi, che l'Italia negli anni Ottanta intervenne per modificare il quadro politico in Tunisia. Un'operazione che venne condotta per impedire quell'alleanza di Bourghiba con Gheddafi, voluta dall'Unione Sovietica». Così, nel 1997, "Franz" incontrò Craxi ad Hammamet. «La sua residenza - dice - era più sorvegliata del palazzo presidenziale. Se sono arrivato a incontrarlo, evidentemente lui aveva capito molto bene chi ero e chi rappresentavo. Fu molto gentile e comprensivo. Mi disse però che forse i tempi non erano ancora maturi per rivelare la verità su Gladio e quale sia stata la sua vera funzione. Per questo mi disse che occorreva avere pazienza perché "certe difficili verità potrebbero creare reazioni illiberali". Scrisse poi una lettera per Arconte e Giacomina e, congedandomi, me l'affidò». Ma i contatti con Craxi non finirono lì. "Franz" racconta infatti che il dialogo tra l'ex presidente del Consiglio e il gruppo degli ex gladiatori continuò. Fino a quando, nel 1999, l'ex presidente del Consiglio decise di parlare. «Chiese di essere sentito dalla Commissione Stragi - dice "Franz" -, ma non gli fu possibile, perché gli vennero negate alcune garanzie. Strano, per interrogare il generale Gianadelio Maletti in Sudafrica, anche lui latitante per la giustizia italiana, nessuno fece storie». Il legame tra "Franz" e Arconte si cementò nel 1995. «Ci incontrammo per caso in Sardegna - dice - ed entrami sentimmo subito di non essere due estranei. Bastò parlarci un po' per rendermi conto che Arconte era quel G.71 al quale avevo affidato, negli anni Settanta, un gruppo di dissidenti ucraini sul Danubio, al confine con la Romania. Lo avevo visto per pochi minuti: il tempo di una parola d'ordine, un'identificazione in codice e l'augurio di buona fortuna». Ma Arconte e "Franz" si incontrarono anche un'altra volta, prima del 1995. Fu in Libia, nel 1979. «Ero stato infiltrato come addetto agli approvvigionamenti alimentari - racconta "Franz" - nelle cucine di una delle più grosse imprese di costruzioni italiane che aveva un grosso cantiere in Libia. Per l'esattezza, stava costruendo un aeroporto a Sirte e due piste erano già pronte. Una era militare. Vidi infatti i piloti russi e tedeschi orientali addestrarsi sui Mig. Fotografai così le strutture, documentai la presenza dei militari sovietici e raccolsi altri documenti riservati. Consegnai il plico con tutto il materiale a un altro gladiatore: era G.71. Quando gli americani bombardarono la Sirte, sapevano benissimo dove colpire...». "Franz" racconta che successivamente si spostò a Bengasi e perfino a Tripoli, dove continuò il suo lavoro di intelligence. «Aiutai molti oppositori al regime di Gheddafi a fuggire in Italia - dice ancora -. Spero solo che tra di loro non ci sia qualcuno di quelli rimasti vittime dell'orribile mattanza avvenuta nel 1980 in Italia. Noi li salvammo, poi qualcuno tradì e passò i loro nomi alla polizia segreta libica, comandata da Jallud. Il vero referente del Kgb a Tripoli». "Franz" si congeda. Dice: «Ho detto tutto al dottor Ionta della procura di Roma. Spero che serva a restituire alla verità una stagione della storia del nostro Paese. Arrivederci»".

 

 

 
 
 
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