Mondo Jazz

EDITORIALI


L'editoriale di Filippo Bianchi sul numero dicembrino di Musica Jazz ha provocato una replica da parte di Gerlando Gatto.Prendo a prestito lo scritto di quest'ultimo che riassume in breve la disputa: L’articolo parte dalla giusta considerazione che, nel nostro Paese, la meritocrazia non viene rispettata e che si affida la “selezione dei ruoli dirigenti, pubblici e privati, ad appartenenze politiche e lobbystiche, raccomandazioni, familismo, tangenti”. E come non concordare su un’analisi del genere a patto che non si faccia, poi, la solita distinzione tra quelli duri e puri e gli altri tutta una massa di imbroglioni.Ma andiamo oltre; si dice, ancora giustamente, che il jazz è inclusivo non potendo prevedere altra discriminante che la qualità della musica. Di qui la tesi secondo cui il mondo del jazz fa eccezione rispetto al quadro descritto in precedenza. Ciò perché:a) il pubblico è competente;b) nel jazz sono più numerosi che altrove i centri decisionali;c)il jazz non attribuisce molta importanza ai grandi media.Le controdeduzioni di Gatto: A mio avviso la situazione del jazz italiano vive attualmente una situazione di quasi blocco o se volete di oligopolio. E mi spiego meglio. Oggi il panorama vede un solo artista capace di focalizzare l’attenzione dei media (come se fosse l’unico jazzista valido) e potenzialmente impegnato 365 giorni l’anno; sullo stesso livello, per quanto riguarda i concerti, un altro musicista che però non riceve eguale attenzione mediatica; questi due artisti sono in grado di mobilitare masse consistenti di denaro, forse troppo consistenti vista la crisi che attraversiamo.Solo mezzo gradino più sotto, un altro artista che, solo volesse, potrebbe anch’egli suonare ogni sera. Dietro questi tre, una decina di musicisti che continuano ad esibirsi con buona regolarità (spesso più all’estero che nel nostro Paese).Per il resto una pletora di buoni se non ottimi jazzisti che tirano alla meno peggio dimenticati da organizzatori, gestori di clubs, radio e televisioni. Per dirla ancora più chiaramente, se pochissimi musicisti consumano quasi tutta la torta di finanziamenti in qualche modo riservati al jazz, è chiaro che per gli altri restano solo le briciole.Mi si potrebbe obiettare: ma i tre cui ci si riferisce sono in assoluto i più bravi del panorama. E qui casca l’asino dal momento che credo nessuno possa fare un’affermazione del genere.Seconda obiezione: è il mercato che decide! Tesi più che lecita purché la si porti avanti con la dovuta coerenza: non capisco perché per un comparto artistico come la musica debba decidere il mercato, e poi quando si parla di economia il mercato diventa il diavolo, il nemico numero uno… ecco un po’ di coerenza in più non guasterebbe. Quanto alla competenza del pubblico, mi permetto di nutrire qualche dubbio quando vedo che i concerti (sic) di Allevi continuano a registrare il tutto esaurito.Personalmente sono vicino alle posizioni di Gatto, anche se la mia conoscenza diretta di impresari, organizzatori, direttori artistici e discografici è pressochè nulla e pertanto la mia esperienza è solo deduttiva.Certamente l'affermazione che il pubblico del jazz è competente è un pio desiderio: basta scorrere le classifiche di vendita degli album o frequentare un grande festival come Umbria Jazz per rendersi conto della realtà. Se il mercato discografico fa testo fino ad un certo punto, innegabile invece che da anni ( o forse, da sempre) le migliori proposte musicali a Perugia sono quelle che attraggono meno pubblico e viceversa, le più scontate e risapute fanno il pieno.Ma andando ancora più a fondo, basterebbe interrogarsi sul successo nel nostro paese di artisti come Keith Jarrett per verificare che competenza e conoscenza sono aspetti marginali: indipendentemente dal valore del musicista, innegabile nel caso di Keith, i motivi che fanno riempire teatri a prezzi da rapina e fanno vendere qualche migliaio di compact (un successo nel nostro mercato....) sono sopratutto da ricercarsi ovunque meno che nell'aspetto musicale. Il successo è decretato da un pubblico radical chic, nel senso deleterio del termine: una massa che fa tendenza per moda, per conformismo culturale, per ascolti da sottofondo ad aperitivi mondani, ignorando del tutto l'aspetto fondamentale, e cioè la musica, ed in questo rinnegando lo spirito che ha sempre animato il pianista di Allentown.Purtroppo la conclusione è che anche il mondo del jazz riflette il malessere del paese, e se le potenzialità ( ed i talenti ) sono tante la situazione è tutt'altro che eccellente se non per le poche eccezioni a cui fa riferimento Gerlando.Per gli interessati, i riferimenti della discussione sono nell'editoriale del direttore sul numero di dicembre di Musica Jazz e sul sito A Proposito di Jazz    http://www.online-jazz.net/wp/2011/12/15/il-jazz-in-italia-un-mondo-ingessato/