Mondo Jazz

PROLIFERAZIONE INCONTROLLATA


Si contano a dozzine, i festival di jazz made in Italy, in ogni provincia e regione del Nord, del Centro e del Sud, isole comprese: sarà anche la più americana delle musiche del mondo, ma il jazz, nel nostro Paese, sembra aver trovato una seconda casa.....Ma come si spiega questa proliferazione in un paese che – recentissimi dati Eurostat alla mano – è ultimo in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura? Come si giustifica la presenza di così tante manifestazioni – spesso gratuite – dedicate a una musica di non sempre facile interpretazione e fruizione? Da cosa deriva il presunto interesse per il jazz di una popolazione come quella italiana, che certo non si è distinta, negli ultimi decenni, per passione e spesa culturale?....È difficile reperire dati certi sul consumo musicale nel nostro Paese, ma secondo una ricerca Fimi (Federazione industria musicale italiana) di pochi anni fa, il numero di cd venduti è diminuito, dal 2008 al 2010, del 25%. È vero che il calo delle vendite di dischi non corrisponde necessariamente al calo di pubblico dei festival, ma è altrettanto innegabile che, se si vanno ad analizzare i gusti degli acquirenti di cd, si scopre che il jazz le prime posizioni delle classifiche di vendita non le sfiora nemmeno, cedendo il posto al ben più facile pop nostrano e internazionale.Si torna allora alla domanda di partenza: perché in Italia i jazz festival resistono e, anzi, si moltiplicano a dismisura?Non essendo sufficiente, come spiegazione, il forte affetto che lega un pubblico di 40-60enni ai pochi grandi nomi del jazz nostrano (Enrico Rava, Paolo Fresu, Danilo Rea, Franco D’Andrea, il più giovane e popolare Stefano Bollani), prova a dare una risposta il sassofonista e studioso di jazz Simone Garino: «Le motivazioni principali sono due. La prima, molto positiva, è che la maggior parte di questi festival è in piedi da parecchi anni, specialmente nei piccoli centri urbani sparsi un po’ in tutta Italia», ha detto.«Si tratta di occasioni realmente radicate e vissute dalla comunità, che si riconosce culturalmente nell’evento. È il caso, ad esempio, del festival di Berchidda: secondo una ricerca condotta pochi anni fa, molti anziani del paese considerano il jazz la vera musica locale».Per questi piccoli centri i festival rappresentano inoltre una non indifferente fonte di sostentamento economico: «Avere anche solo 100 o 200 spettatori che vengono da fuori, che fanno la spesa o mangiano al ristorante può significare molto, in termini economici, per questi paesini, spesso tagliati fuori dal turismo di massa».La seconda motivazione fornita dal musicista è invece di carattere più storico e politico: «Il jazz è nato come musica di protesta e nei suoi primi anni di vita è stata una voce forte della comunità afroamericana. Oggi, invece, si tratta di una musica addomesticata, assimilata al sistema. Per un comune, soprattutto se di piccole dimensioni, il pubblico del jazz è un pubblico comodo, generalmente composto da persone non più giovanissime che non fanno troppo rumore e non tirano tardi la sera. Molto più difficile, invece, è gestire il pubblico del rock e, soprattutto, della musica elettronica».Per Jacopo Tomatis, critico musicale e studioso di popular music, il perdurante successo dei jazz festival italiani è invece dovuto, tra le altre cose, a una sorta di annacquamento dell’offerta musicale: «Il jazz in Italia può contare su un discreto numero di appassionati molto fedeli, disposti a muoversi per ascoltare ciò che gli interessa. Ma è anche vero che molti festival storici, e non penso solo a Umbria Jazz, che è l’esempio più lampante, negli ultimi anni hanno allargato molto il concetto di jazz, inserendo concerti di richiamo. Sono meno, e con molto meno pubblico, i festival che perseguono una direzione artistica chiara verso una loro idea di jazz».Prepariamoci dunque a un’altra primavera-estate italiana a ritmo di jazz, una musica che forse, per parafrasare un pensiero del poeta e critico musicale afroamericano Amiri Baraka, non è più in grado di porsi al di fuori della “cultura ufficiale”, ma che ancora è capace, semplicemente, di emozionare, dal delta del Mississippi a quello del Po.FONTE: http://www.lettera43.it/cultura/il-jazz-che-non-ti-aspetti_4367591941.htm