Mondo Jazz

I percorsi dell’Improvvisatore Involontario


  Tre nuove pubblicazioni in contemporanea per il collettivo/associazione Improvvisatore Involontario, una realtà nata nel 2004 per iniziativa del batterista Francesco Cusa (già protagonista qualche mese fa del notevole "From Sun Ra to Donald Trump", con Atti, Graziano ed Evangelista) e dei chitarristi Paolo Sorge e Carlo Natoli, che  da Catania si è affermata sul panorama nazionale ed internazionale offrendo strumenti diretti ed innovativi per la produzione e distribuzione di proposte musicali nel segno dell’eclettismo e di una irrequieta curiosità. Oltre a dare sviluppo alla principale creatura di casa, l’orchestra d’improvvisazione Naked Musicians diretta da Cusa, l’associazione, nel corso degli anni, ha offerto ospitalità ad un discreto numero di progetti che costituiscono oggi un significativo campionario del sottobosco del jazz nazionale. Le recenti uscite, a nome del Glenn Ferris Italian Quintet, del Late sense Quartet e del S.d.b. project, arricchiscono il catalogo con opere che si collocano fra la tradizione e l’innovazione, e testimoniano la vitalità di una musica che, fra mille stenti e problemi, si ostina caparbiamente ad essere suonata e divulgata. Beninteso, non siamo al cospetto di capolavori sconvolgenti o di capitoli imperdibili della storia del genere, ma di opere che manifestano progettualità, amore artigianale e non sono prive di alcuni guizzi di creativa follia nella propria realizzazione. Insomma, quello che può convincere l’appassionato a dedicare un ascolto non prevenuto. Dei tre il lavoro più accattivante e comunicativo è quello del quintetto italiano (Mirco Mariottini al clarinetto, Giulio Stracciati alla chitarra, Franco Fabbrini al basso e Paolo Corsi alla batteria)  del trombonista statunitense Glenn Ferris, uno che in carriera ha spaziato da Frank Zappa a Tim Buckley e da Stevie Wonder a James Taylor, e che qui mette il proprio estro compositivo e le note ironiche e profonde del proprio trombone al servizio di una musica dalla forte componente ritmica (subito evidente nella title track “Animal Love”,  imbastita su un robusto groove) , ma non priva di sfumature e profondità, evidenziate in particolare dall’originale impasto timbrico fra i due fiati e la chitarra bluesy di Stracciati, in evidenza nell’unica cover del disco, una versione straziante di “St James Infirmary”. Da segnalare anche le due composizioni originali di Mariottini “Five in China”, sospesa in un intrigante mistero strumentale, ed il tema arioso di “W Ernest” a firma del bassista Franco Fabbrini. La presenza del trombone in veste di ospite di  Massimo Morganti costituisce il motivo di collegamento con “Meetings….” esordio del Late sense quartet (Gaetano Santoro al sax, Edoardo Ponzi al vibrafono e marimba, Francesco Marchetti al basso e Mauro Cimarra alla batteria). Il quartetto cavalca il confine fra una solida impostazione bop e forme maggiormente propense ad un linguaggio libero, omaggiando Bill Evans con le cover di “Interplay” e “Nardis” entrambe riarrangiate dal batterista Cimarra, e dando il meglio nei pezzi a tempo lento come “Ballad for my Valentine” e “Come una rima semplice” dove il vibrafono crea una spazialità di fondo ideale per gli assorti dialoghi fra gli strumenti a fiato. Non mancano pezzi più movimentati come “Broken blue” o l’arrembante ghost track che chiude il disco, né si fa a meno di quel pizzico di elettronica a cura di N2B , chiunque o qualunque cosa sia, che spezia ulteriormente una proposta ricca di tanti umori diversi. Un solo di pianoforte introduce invece “Red and blue”, opera di un quartetto diretto dal giovane, ma già ricco di esperienze, contrabbassista Simone Di Benedetto, che viene affiancato dal sax alto e clarinetto di Achille Succi, dal pianoforte di Giulio Stermieri e dalla batteria di Andrea Burani. In programma un ampio catalogo di influenze e suggestioni che si combinano in una dimensione paritaria fra i quattro musicisti: si alternano echi di Ornette (“The big wuedra in the sky” e “Bei denti ‘sto demone”), spunti di provenienza nordica ed accostamenti classici, dialoghi improvvisati e l’ estroversa comunicativa della title track, a sottolineare l’ attenzione per le componenti tematiche e melodiche. Una prova in raro equilibrio fra scrittura ed improvvisazione, dove la dinamica collettiva lascia spazio ad incisive performance in solo del leader, dei fiati di Succi e del pianoforte di Stermieri che  imprimono carattere ed incisività alle articolate composizioni di Di Benedetto. Un lavoro ed un gruppo da non trascurare.Andrea Baroni