Mondo Jazz

SOPRAVVIVERSI


Raggiungere i 90 anni è traguardo ragguardevole. Ancor più per un jazzman: è pur vero che la stagione dei drug habits e delle implicazioni di emarginazione sociale è ormai alle spalle, ma anche il forzato, frenetico vagabondaggio da una camera d’albergo all’altra facendo il surf tra i fusi orari e collezionando jet lags a catena non è certo un buon viatico per la longevità.Resta però da domandarsi se giunti ad età così estreme si sia ancora in grado di rimanere all’altezza di una reputazione spesso faticosamente costruita in una musica in cui la fisicità ha una parte importante, particolarmente quando si parla di trombettisti e sassofonisti.   Un paio di giorni fa ho fatto un tentativo: ho iniziato ad ascoltare alla radio un concerto di un musicista che ho molto amato sin dai primi temi delle mie frequentazioni jazzistiche: Lee Konitz. Ero avvertito: un paio di anni fa lo avevo ascoltato in concerto a Milano, una delle rarissime occasioni in cui sono stato tentato di abbandonare la sala prima del tempo. La prova di appello si è conclusa dopo qualche minuto di fraseggi erratici e lacunosi, pur volenterosamente sostenuti da un gruppo di sidemen forzatamente ridotti al ruolo di meri accompagnatori dalla necessità di non metter in difficoltà un leader che, oltre che evidenziare delle scontate carenze strumentali (messe in conto e perdonate in partenza), rivelava una chiara mancanza di visione e discorso musicali complessivi. Concediamo comunque a Konitz la possibile – ma forse improbabile – attenuante di esser costretto da necessità economiche a continuare ad esibirsi anche ad avvenuto esaurimento delle proprie risorse creative. Non possiamo comunque sottacere la miglior scelta di stile di un Sonny Rollins, che dopo aver offerto sino all’ultimo le sue doti di artista creativo, si è ritirato in una casetta del New England, tuttora oggetto di pellegrinaggi da parte di molti che giustamente tentano di cogliere il miglior contributo che solo questi rarissimi ‘grandi vecchi’ del jazz possono ancora dare: quello alla costruzione di una sorta di ‘storia orale’ ed in prima persona di questa musica, che, ricordiamolo, è stata molto più spesso raccontata ‘dall’esterno’.Ma distacchiamoci dalla questione della scelta personale di Konitz di continuare a calcare le scene fuori tempo massimo. Veniamo invece a quella di proporre occasioni di ascolto di questo tipo. Accantoniamo senza tanti complimenti l’ipotesi dell’intento benefico, completamente incompatibile con la dura realtà dell’impresariato musicale, soprattutto di questi tempi. Mettiamo tra parentesi anche il calcolo commerciale insito nel far leva sulla nostalgia alimentata da uno dei pochissimi miti ancora viventi di questa musica. Mi sbaglierò, ma sul piano delle motivazioni artistiche mi sembra di intravedere dietro queste scelte una certa ‘estetica dell’abnorme’, che sembra quasi un tratto di corda di quelle remote e recondite catene che legano dalle sue origini più remote la musica afroamericana al mondo dell’intrattenimento di grana grossa, direi dell’avanspettacolo. Considerato il sempre precario status culturale di questa musica, mi sembra che di tutto abbia bisogno tranne che di un’estetica venata di una certa morbosa spettacolarità e, in fondo, di un certo masochismo.Sarò un sentimentale, ma per quanto mi concerne preferisco conservare dei bei ricordi  (anche se un po’ ingialliti) che assistere all’autopsia di un talento. My five cents, ovviamente.