Mondo Jazz

CORMONS, TERRA DI VINO, MULTICULTURALITA' E JAZZ


Jazz & Wine of Peace Festival giunge alla dodicesima edizione, confermando una tradizione consolidata di eccellente rapporto tra territorio, cultura enologica e proposte musicali di prim’ordine. Le stesse dimensioni contenute del borgo fanno si’ che la rassegna abbia quello spirito di familiarità, di genuina capacità di incontro tra appassionati di differente nazionalità accomunati da sincero amore per il jazz e per questa magnifica terra. Una buona metà degli spettatori che hanno affollato il Teatro Comunale era infatti di provenienza austriaca o slovena, tanto da giustificare gli annunci bilingue che hanno accompagnato ogni serata. Inizio affidato la sera del 22 ottobre al trio Depart dell’istrionico sassofonista viennese Harry Sokal, che ha divertito e convinto con un agile set giocato sul filo della perizia tecnica, ben sorretto dalla compatta sezione ritmica, con abbondanti spruzzate di ironia ed un sagace uso dell’elettronica. A seguire il nuovo quintetto di Tomasz Stanko, che ha proposto integralmente il nuovo album (Dark Eyes) appena licenziato per la E.C.M.. Il giovanissimo quartetto che lo ha accompagnato è formato da due musicisti danesi e da due finlandesi, ed ha messo particolarmente in luce le buone prove di Alexi Tuomarila al pianoforte e di Jakob Bro alla chitarra. Senza l’afflato poetico della tromba di Stanko difficilmente la musica avrebbe però preso quota. Le nuove composizioni presentate nell’album sono al servizio della particolare vena introspettiva segnata da grande originalità che contraddistingue le recenti stagioni creative del trombettista polacco. Rimane il rimpianto per il precedente trio capitanato dal pianista Marcin Wasiliewski che accompagnava Stanko con ben diversa cifra stilistica ed espressiva.L’apertura mattutina del 23 ottobre si è svolta nella raccolta chiesetta di San Giovanni con un intimo ed emozionante set di Asja Valcic al violoncello e Klaus Paier a fisarmonica e bandoneon. Una proposta che unisce suggestioni classiche a musica popolare, toccando infine l’apice con il tango malinconico e sferzante di Astor Piazzolla nel bellissimo Oblivion suonato come bis.La maggiore delusione del festival, come era facile supporre a chi già avesse avuto modo di conoscerne il progetto, è venuta dal Ripple Effect di Jack DeJohnette e John Surman. Due assoluti giganti del jazz contemporaneo impegnati in una musica di facile esotismo, senza punte creative ne idee particolarmente pregnanti. Non si riesce a comprende il motivo di tanto spreco di talento.Diverso il risultato del set del tentetto di Ken Vandermark, forse troppo provato da un trasferimento in pulmann di ben quindici ore: musica arcigna, molto rigorosa e coerente con l’universo sonoro del leader, ma senza concessione alcuna. Poco più di un’ora di concerto tra complesse strutture, pirotecnici volteggi nei quali erano liberate dosi massicce di energia, aspra e ammirevole ma forse con un tasso lucidità inferiore alla necessaria capacità di comunicazione .Il concerto di apertura di sabato 24 ottobre ha visto protagonista il New East Quartet di Anatoly Vapirov, una formazione che annovera l’originale batterista Vladimir Tarasov, una delle colonne della celebrata prima versione del Ganelin Trio . Dopo una apertura astratta, il concerto ha preso una piega decisamente più improntata a temi popolari dell’est europeo sapientemente smontati e rimontati con gusto e sapienza . La bellissima sonorità del tenore di Vapirov ha giocato con pieni e silenzi, conducendo un set godibile ed equilibrato.Il clou della serata era però ovviamente costituito dal quartetto 858 di Bill Frisell, autore di una prova maiuscola, di forte impatto e notevole raffinatezza. Come un sapiente vino del Collio, la musica del chitarrista americano è apparsa subito ben strutturata, impregnata di un forte retrogusto folk e aromatizzata con profumi minimalisti, sentori classicheggianti e aromi squisitamente jazzistici. Musica prevalentemente scritta, con brevi ma succosi spazi improvvisativi e aperture melodiche di effetto emotivo immediato. Un gruppo particolarmente affiatato per un jazz da camera in grado di soddisfare i palati più raffinati.L’ultima giornata ha visto sotto i riflettori il talentuoso pianista americano di origine indiana Vijay Iyer inizialmente alla testa del trio con il quale ha appena pubblicato il bellissimo Historicity, successivamente affiancato dall’altro talento indo-americano, il sassofonista Rudresh Mahanthappa. Un set che ha messo in luce il pianismo potente, colto e serrato, contraddistinto da un uso particolarmente accentuato della mano sinistra in chiave armonica più che ritmica che rende Iyer immediatamente riconoscibile. Un gruppo omogeneo ed affiatato che ha guadagnato il consenso del folto pubblico. L’ingresso di Mahanthappa ha aggiunto spezie inusuali, mostrando una evidente complicità tra leader e sassofonista. Un ottimo bis suonato dai due senza sezione ritmica ha chiuso un concerto intenso ed emozionante.Il gran finale è stato all’insegna del puro divertimento grazie al quintetto di James Carter, una vera e propria forza della natura con una capacità strumentale impressionante per swing e tecnica prodigiosa. Il gruppo ha snocciolato una sequenza di standards, da Sidney Bechet a Clifford Brown, sino al poco battuto Odeon Pope, mettendo in luce una grande voglia di divertirsi e divertire, e poco importa se Corey Wilkes non è parso inappuntabile sui tempi lenti, e se lo stesso Carter alla lunga ha finito per gigioneggiare un po’. Il festival si è chiuso con tutto lo staff di Controtempo schierato sul palco a salutare ed applaudire e a farsi applaudire dal pubblico: un gesto di ammirevole simpatia che denota la profonda carica umana che contraddistingue la gente friulana.