Mondo Jazz

ULTIMA SERATA DI FUEGO: CHIASSO JAZZ FESTIVAL


Dopo qualche anno di sperimentalismo e frequentazioni più o meno ardite ecco sopraggiungere una edizione negli intenti più calda ma nei fatti più povera e senza grandi punte di qualità. Ho scelto l'ultima serata nella speranza di ascoltare il meglio, sulla carta c'erano le proposte più stimolanti, ma il risultato finale non è andato oltre una normale amministrazione musicale. Hamid Drake è un batterista formidabile: le sue frequentazioni raccolgono il meglio della scena mondiale, da Don Cherry a Anthony Braxton, quindi la mia aspettativa era abbastanza alta nonostante l'ascolto del nuovo album (Reggaeology) con lo stesso gruppo non mi avesse conquistato. Non posso dire di essermi annoiato, anzi, mi sono anche sinceramente divertito; ho ammirato due trombonisti di statura notevolissima che ad ogni intervento automaticamente innalzavano il livello del concerto. La proposta era incentrata sul reggae riletto e rivisitato con lo sguardo swingante e smaliziato del jazzista: temi semplici, formidabile base ritmica in levare, un cantante-rumorista bravo ma complessivamente ininfluente e due fiati, Bishop e Albert, che hanno retto il peso creativo della serata. Nei fatti si è trattato di una idea divertente e ben congegnata ma dal respiro limitato e senza prevedibili sviluppi, in cui il jazz è solo parziale componente di un universo effervescente ma richiuso su se stesso. Drake si è prodotto in un notevole assolo ricco di energia e di richiami a Max Roach, Parker è un interessante chitarrista di evidente derivazione rock e Abrams ha svolto con precisione e forza il suo compito: di più era difficle pretendere vista la formula.Il secondo gruppo era una novità assoluta, cioè il nuovo quartetto di Manu Katchè, batterista francese di origini ivoriane conosciuto per le numerose frequentazioni pop e la lunga militanza nel quartetto di Jan Garbarek. L'ultima volta che avevo assistito ad un concerto di Katchè, due anni fa a Bergamo Jazz, me ne ero andato dopo una mezz'ora con i padiglioni auricolari offesi da quella che io chiamo la sindrome di Jack De Johnette. Quando cioè, il batterista-leader prevarica gli altri musicisti con un volume esagerato, nella maggioranza dei casi anche per coprire il vuoto di idee. Non è stato cosi' sabato sera, il gruppo anzi è parso già piuttosto rodato, e dopo il reggae di Drake anche il jazz leggero e prevedibile di Katchè è sembrato appetibile. Bei temi, un interessante pianista francese (Alfio Origlio) di evidenti ascendenze italiche, un sassofonista  clone di Garbarek (Brumborg) ed un leader che si è ragionevolmente trattenuto dallo strafare. Concerto tanto liscio e innocuo quanto privo di qualsiasi stimolo nuovo o di voglia di rischiare qualcosa. Speriamo in più coraggio anche negli organizzatori per la prossima edizione.