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Mondo Jazz

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WHERE ARE THE FEMALE JAZZ CRITICS ?

Post n°1958 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da pierrde

Bella domanda, a porsela è Nate Chinen su Jazztimes. Chinen è uno scrittore e critico musicale che spazia dal New York Times al proprio blog, oltre naturalmente ai magazine di jazz.

La domanda comunque ha una valenza mondiale, e, a dispetto dei nomi che il giornalista americano esplica nel suo articolo, il problema è reale.

Manca ed è mancato nel tempo uno sguardo femminile acuto e competente in grado di donare una visione da un angolo diverso della materia musicale. Anche in Italia la mancanza è evidente, solo grazie all'avvento dei blog si comincia a respirare aria nuova.

Qualche settimana fa ho segnalato all'attenzione dei miei lettori il bel blog Jazzdaniels, gestito da Daniela Floris per i testi e Daniela Crevena per le fotografie.

Aggiungo la segnalazione del blog di Cinzia Guidetti, recentemente rinnovato con la collaborazione del fotografo Francesco Truono con ricchi reportage sull'ultima edizione di Umbria Jazz.

Planet Jazz da anni opera con segnalazioni di concerti e festival, poi ci sono altri blog al femminile che però trattano di jazz non in maniera esclusiva oppure sono aggiornati raramente. 

Ecco comunque il testo di Nate Chinen:

 

Pardon me for propping up an old grievance, but the perpetual shortage of influential female jazz critics has been really bothering me of late. It should bother you too. Not simply for reasons of gender parity; not because of the dictates and quotas of political correctness. You should care because our discourse lacks an illuminating perspective. Without prominent women working visibly and steadily in jazz criticism, the field has long been intractably imbalanced. If you believe as I do that robust criticism is crucial to the life of any art form, this is a deficiency with implications for all of jazz.

Thankfully we do have a (very) small handful of exceptions today, like Lara Pellegrinelli at NPR and Jennifer Odell at DownBeat and the Times-Picayune—informed, perceptive journalists with an aim to reach both the cognoscenti and the hoi polloi. And academia now presents a more heartening picture: There’s no way to inhabit the discipline of jazz studies without absorbing the work of Ingrid Monson, Farah Jasmine Griffin and Penny Von Eschen. But Pellegrinelli, an academic herself, mostly sticks to profile and feature writing, and Odell doesn’t get nearly enough space as a critic.

Consider what might have been, with even just one excellent female critic in an enfranchised position over the last 60 years. What would such a figure have made of the “soft” perceptions of 1950s West Coast jazz? What about Miles Davis, and his journey from “Someday My Prince Will Come” to “Back Seat Betty”? What new, non-worshipful insights might have coalesced around divas like Betty Carter and Sarah Vaughan? How might such a critic have interrogated the masculinist undercurrent of the Young Lions movement—or, for that matter, the alpha-heroic aura of Wynton Marsalis?

For an illustrative contrast, look at the current landscape of pop criticism, which has produced plenty of compelling female voices, including Ann Powers, former chief pop critic for the Los Angeles Times, now filing for NPR; Maura Johnston, music editor at the Village Voice; and Jessica Hopper, Chicago Reader critic. These and other writers bring a clear intelligence to their task, along with a distinctly female perspective.

Some would argue that the nature of pop lends itself to this angle more than jazz. In the introduction to his important 2006 book Blowin’ Hot and Cool: Jazz and Its Critics (University of Chicago), John Gennari bemoans the omission of women therein, noting that jazz culture has always favored “a concept of criticism that stresses taut discipline, rationality, and judiciousness—qualities assumed to be part of a masculine intellectual seriousness set off from the infantilized and feminized emotional realm of mass popular culture.”

Then he mentions two pioneering outliers: Helen Oakley Dance, who wrote for DownBeat in the 1930s, even as she produced Duke Ellington’s small-group recordings; and Valerie Wilmer, who chronicled the 1960s avant-garde. “It’s important to recognize the work produced by these women as quality work, not just as women’s work,” Gennari writes. “But it’s also important to recognize how such work might be different because it has been produced by women working in a realm dominated by men and by patriarchal ideologies.”

Links: 

 

http://jazzdanielsblog.blogspot.com/

http://cinziaguidetti.wordpress.com/author/cinziaguidetti/

http://www.planetjazz.it/2011/10/busto-arsizio-eventi-in-jazz-2011/

http://jazztimes.com/articles/28521-where-are-the-female-jazz-critics

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Commenti al Post:
Utente non iscritto alla Community di Libero
rodolfo il 04/10/11 alle 23:02 via WEB
Il jazz non ha bisogno di critichesse nè di critici ma di storici e filologi poichè è una musica appartenente al passato il cui ciclo si è concluso con una lenta morte in seguito a malattia contagiata alla fine degli anni 50 del secolo scorso. Se prendiamo un moderno jazzista come, per esempio, Bearzatti che va tanto per la maggiore (sic!) e ascoltiamo la sua musica è un po' come se un musicista componesse, al giorno d'oggi, una fuga alla Bach. Sarebbe quantomeno surreale. E' surreale anche l'operazione di Bearzatti ma pochi se ne rendono conto. Gli attuali suonatori di jazz non fanno altro che ripetere cose già fatte molto meglio da Coltrane, Ellington, Davis, Rollins Parker ecc ecc. Musica classica, ormai o, per usare un termine alla moda, mainstream. Quando io voglio ascoltare jazz ascolto Monk o Coltrane, quando voglio ascoltare barocco ascolto Bach e quando voglio ascoltare romanticismo vado su Schuman ecc. Se voglio, invece ascoltare musiche nuove beh, mi rivolgo altrove. Poi, ovviamente, c'è anche chi gli basta Bearzatti, ognuno ha il diritto di ascoltare chi vuole ma il critico no, il critico deve fare un lavoro serio e ben piantato nel presente progressivo.
 
pierrde
pierrde il 05/10/11 alle 11:11 via WEB
Caro Rodolfo, non ci conosciamo di persona ma ci leggiamo vicendevolmente da anni oramai, e, mantenendo immutata stima e considerazione, permettimi pertanto di dirti che leggendo il tuo commento sono rimasto perplesso . Riassumedolo e schematizzandolo mi pare una idea conservatrice uscita dalle labbra di un pensatore progressista. Sulla linea di Marsalis, con tutto il rispetto e la considerazione per il musicista, l'uomo e le sue idee, però tanto lontane da una visione a mio modo di vedere più consona alla stessa storia del jazz che è in divenire. Insomma, e chiudo brevemente, i critici del passato definivano morto il jazz dopo lo swing, tu sposti l'asticella poco più avanti ma il concetto è lo stesso. Dissento, ma rispetto la tua idea (se è questa).
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Babs il 05/10/11 alle 12:59 via WEB
Io dei critici, in generale non solo per la musica jazz, non me ne curo più di tanto! Ascolto il mio cuore e le mie emozioni... non sono d'accordo con Rodolfo Bearzatti o meno ci sono tantissimi musicisti in tutto il mondo che portano avanti e tengono più che vivo ed emozionante il jazz!! Grazie a tutti loro!!!! E una buona settimana a te Roberto che sei moolto meglio di un critico perchè tu AMI questa musica!
 
 
pierrde
pierrde il 05/10/11 alle 18:21 via WEB
Condivido ampiamente, e sopratutto ti ringrazio per la considerazione...
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
rodolfo il 05/10/11 alle 23:49 via WEB
Caro Roberto, è vero che il mio commento aveva un impeto provocatorio ma anche la presunta duttilità specifica del jazz, quel suo essere in divenire, come dici tu, quella sua presunta capacità di adattamento viene sempre più invocata, in quest’epoca incerta come dimostrazione del fatto che il jazz non è morto ma si è semplicemente trasformato, attingendo alle varie culture del mondo e contaminandosi con esse. Bene, io credo che questa sia una grande banalità oltre che la più pericolosa presa in giro che gli storici della musica possano fare nei nostri confronti. E’ una banalità perché tutta, ma proprio tutta la musica è duttile e “in perenne divenire” per sua stessa natura e non solo il jazz. Questa sua proprietà l’ha sempre portata a rigenerarsi, annullarsi, crearsi dal nulla, trasformarsi, negare il suo passato, morire. Non fu un decreto imperiale asburgico, nel 1750 che sancì la fine del barocco di Bach e l’inizio della musica dei lumi mozartiana. Avvenne che la musica che aveva trionfato con Bach si trasformò gradualmente, si contaminò, si trasformò e i contemporanei, probabilmente non riuscivano a cogliere il senso storico di quanto avveniva e pensavano che la musica barocca fosse estremamente “in divenire” ma fosse ancora quella. Noi sappiamo che con Mozart era un’altra e con Beethoven ancora un’altra. Forse dobbiamo aspettare che qualche storico, nel 2050 ci dica che il jazz fu una forma musicale che si sviluppò nella prima metà del xx secolo? Un musicologo serissimo come Vincenzo Caporaletti ha definito una vera e propria sintassi della musica jazz caratterizzata per la peculiarità del ritmo, timbro, swing, improvvisazione ecc. Se noi ascoltiamo Lester Young riconosciamo tutti i parametri sintattici descritti dal musicologo ma se ascoltiamo, per esempio, Braxton, beh, lui non ne usa quasi più e fa suoi molti parametri significativi della musica euro colta. Questo possiamo definirlo jazz che si è duttilizzato o tutt’altra musica? o entrambe le cose? Personalmente, credo che Braxton “agisca” sulla musica europea sulla quale innesta alcuni parametri della tradizione afroamericana ma anche concretismo e minimalismo. Io non posso, non riesco a chiamarlo “jazz”. In ogni caso nel momento in cui mi trasformo non sono più quello che ero, o no? Ultimamente, tra i moderni jazzisti sta prendendo piede l’abitudine alle cosiddette “riletture” della musica di qualche grande del passato, Coltrane, Monk, Davis ecc. questo è indice anche dello smarrimento che questi poveri cristi avvertono nel loro mestiere e la cosa paradossale è che spesso proprio queste riletture sono le cose meglio riuscite di ciascuno di loro. Per quanto mi riguarda, non so se posso considerarmi conservatore o progressista ma sicuramente tendo a guardare avanti e credo che continuare a parlare di jazz rispetto alla multiforme varietà delle musiche di questo inizio del secolo sia maledettamente antistorico.
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Gianni M. Gualberto il 06/10/11 alle 11:04 via WEB
Concordo pienamente (salvo le tracce di minimalismo in Braxton che, francamente, non percepisco). E mentre in area accademica si comincia a guardare con (relativo) interesse anche all'universo mondo, nel microcosmo del jazz c'è chi si restringe ad una nicchia sacrale il cui orizzonte rischia di farsi sempre più asfittico e antistorico.
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
riccardo il 06/10/11 alle 15:30 via WEB
io sono d'accordo in particolare su cosa è stato scritto da rodolfo a proposito di Braxton. Non a caso è molto apprezzato in Europa ma personalmente, pur non dispiacendomi alcune sue incisioni specie degli anni'70 molto originali e più prossime al linguaggio jazzistico, l'ho sempre trovato come jazzista, almeno nel senso inteso da rodolfo che condivido, abbastanza sopravvalutato, uno strumentista polivalente ma non eccelso nella tecnica di emissione del suono e dal fraseggio a volte ritmicamente ripetitivo, e privo di un reale swing jazzistico. So che Zenni &C la pensano molto diversamente su questo punto, ma rimango convinto che gli attribuiscono un attributo che in realtà non esplica al meglio e che le sue doti musicali da riconoscergli al più siano altre e collocabili più nell'ambito inteso da rodolfo. Visto i precedenti nelle repliche a miei interventi su questo apprezzabile sito mi aspetto che qualcuno si inalberi per aver osato dubitare di un'icona dell'avanguardia? Pazienza, sopravviveremo...
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Jazz from Italy il 06/10/11 alle 18:04 via WEB
forse ho smarrito io il tema, a parte quello iniziale lanciato da Roberto che sarebbe davvero interessante approfondire e che è andato subito a puttane... pardon, è uscito un inconsapevole e greve gioco di parole (le donne sono sicuramente più sensibili e ricettive nel loro modo di vivere, vivono le cose anzichè guardarle dal di fuori e vestirle di nuove forme per poterle raccontare e questo dovrebbe aprire un sottotema sulla critica tutta...).
Ad un certo momento ho avuto l'impressione che il discorso abbia virato verso un approfondimento del tema: ha senso oggi parlare di jazz?
Ma anche quì mi sono smarrito.
La questione è di nomenclatura? cioè non dovremmo più scrivere la parola jazz ed usare altri termini, tipo forma sonora improvvisata, ex-jazz, musica interattiva contemporanea, sintesi emotiva, musica libera, melodia pop venata di jazz, suono-spazio-colore, et similia?
Oppure è dei contenuti che parliamo, nel senso che ritmo, timbro, swing ed improvvisazione odierna non si rispecchiano più nel ritmo, timbro, swing ed improvvisazione che intendeva Capolaretti, fotografando un singolo frame di un'Arte in perenne movimento?
Se è dei personaggi che lo abitano, allora diventa personale e non so più quanto possa essere utile una discussione aperta a tutti.
Se invece è sulla prova della loro contemporaneità che discutiamo, allora dobbiamo essere i primi a sfidare noi stessi e le nostre vedute. Per esempio a me Bearzatti piace molto e lo trovo una delle voci pensanti più interessanti al momento. Ma potrei dire lo stesso della Cosmic Band di Petrella, di Giovanni Falzone, di Umberto Petrin, di Andrea Ayassot e di gran parte dei componenti del collettivo El Gallo Rojo, di Gianni Gebbia, di Pietro Tonolo, di Cristiano Calcagnile, di Alberto Braida, di Beppe Scardino, di Francesco Diodati e di Fabrizio Spera Appena fuori dal nostro paese, non è possibile non capire le urgenze espressive di Avishai Cohen, di Magnus Broo, della Geraldine Laurent, di Médéric Collignon, del collettivo Islak Köpek, di Omer Avital, di Bernardo Sassetti e potrei continuare fino ad annoiarvi, e chissà quanti ne dimenticherei.
Anthony Braxton stà lì, suona ancora fuori le sue idee, ma è più vicino a tipi come Prez, Duke, Miles o Trane, che a noi poveri cristi di oggi. Allo stesso tempo c'è pure Marsalis, che è più lontano dai padri che imita di quanto la critica riesca ad ammettere. Voi oggi credete ancora alla separazione delle musiche, belle ordinate in fila con le loro etichette? E di un disco a metà come Wiry Strong di Ralph Alessi, che ne pensate?
un giorno, tutto si chiamerà jazz, pure il canto degli uccellini, ma oggi, qual'era il tema da svolgere?
 
pierrde
pierrde il 06/10/11 alle 21:27 via WEB
Un buon padrone di casa non deve necessariamente ribattere argomento su argomento (tra l'altro non certo nuovo e con persone con le quali nel tempo un certo scambio di idee c'è gia stato)ma lasciare la porta aperta per nuovi ospiti e nuove idee (sperando che...arrivino). Quello che leggo fin qui mi sembra stimolante e meritevole di approfondimento. Ringrazio tutti per il contributo e anche per le vedute diverse, sale per la discussione come l'evidente passione che ci accomuna.
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
riccardo il 07/10/11 alle 15:29 via WEB
la musica è un insieme complesso di diversi ingredienti e non ha molto senso nel fruirne e nel valutarla separarando per stili, categorie e ingredientipresenti, su questo sono d'accordo, ma la cosa vale oggi come ieri,anche restando in ambito prettamente africano-americano. Se tu ad esempio senti Ellington, o Mingus, o un Roland Kirk piuttosto che un Jaki Byard farai molta difficoltà comunque a classificarlo in una delle classiche categorie jazzistiche, perchè le contiene tutte e nessuna assieme, perché quando le ascolti non senti mainstream, più o meno modern, bop o free, o New Orleans, senti Ellington, Mingus etc e nient'altro. le categorizzazioni in stili possono servire in fase di analisi non necessariamente in fase di sintesi, cioè di ascolto e valutazione finale di ciò che si ascolta. Oggi per lo più il jazz può essere un ingrediente più o meno rilevante e presente nell'ambito delle musiche improvvisate contemporanee, ma il jazz ha alcune peculiarità che in qualche modo devono essere comunque percepibili nella musica che si ascolta se si vuole così definirlo. In molta musica improvvisata odierna queste peculiarità sono sempre meno rilevabili, a volte non sono proprio presenti, il che non comporta che non sia musica valida, ma altrettanto non riesco a comprendere l'esigenza forzta di doverla etichettare come jazz perchè questo è quel che succede, tra l'altro rischiando comunque di confondere le idee a chi fruisce. Perché si fa? A qale scopo? Per quale necessità? Quindi il problema potrebbe essere al contrario, semmai. Tra l'altro se pensiamo a musicisti eclettici e polivalenti di oggi come John Zorn o Keith Jarrett non tutta la loro produzione è jazz, ma sta tranquillo che loro lo sanno quando lo suonano oppure no, per quanto sono certo che non si porrebbero mai un problema del genere che in sostanza non li riguarda né credo interessi loro. Di confusione loro non ne fanno semmai il problema può essere di chi fruisce o di chi critica. E' in queste teste che si può genersre certa confusione. Poi si entra nel ambito delle preferenze individuali. Per me ascoltare musica improvvisata senza la resenza di certi ingredienti ritmici propri nel modo di suonare il jazz semplicemente non mi attizza, perchè a me piace il jazz con presente quel requisito che per me è indispensabile per definirlo tale ed è un ingrediente che nella cultura musicale africana americana trovo a larghe manciate. Molto meno in quella europea o di derivazione della cultura musicale europea e che vedo essere oggi molto sponsorizzata. Mi si dirà che il jazz non rappresenta più il fulcro della musica improvvisata di oggi. Pazienza, ne prendo atto e smetterò di ascoltare musica che mi interessa poco e non mi comunica molto. Non me l'ha ordinato il dottore né devo farlo per risultare aggiornato a qualcuno, ma quando voglio ascoltare del jazz non avrò incertezze di sorta, basterà tirar fuori i live al Village Vanguard del trio di Rollins del 57 per rinfrescarmi la memoria e deliziare le mie orecchie, lasciando la gran parte della sciapa e ritmicamente smunta e soporifera produzione ECM europea odierna, a volte persin lugubre, ai cultori della modernità a tutti i costi in musica, beandomi nelle mie nostalgie di attempato e un po' rincoglionito appassionato di una musica ormai superata dai tempi senza rancor ed invidia alcuna.
 
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riccardo il 11/10/11 alle 16:31 via WEB
Il jazz è morto e sepolto? Può darsi ma forse è morto per chi non lo ha mai saputo suonare o non lo ha mai compreso per davvero. Per esempio, mi bastano i primi 2:32 di questo pezzo per sentire una lezione di jazz (non solo di canto jazz) e capire che c'è ancora in giro qualcuno che fa vivere e rivivere la sua grande tradizione, quella che, per intenderci, non è dimentica dagli antichi insegnamenti del grande ed irripetibile Louis Armstrong: http://www.youtube.com/watch?v=uCdjswQPKbA il solito standard? La solita canzoncina? il solito "My foolish Heart? Niente di nuovo insomma...Per alcuni forse, ma non per me. Gli accenti ritmici nell'esposizione del tema sono distribuiti con grande fantasia e varietà, così come le sostituzioni melodiche sono originali e di gusto. Questo per me è il jazz,qualcosa di apparentemente assai semplice ed invece estremamente sofisticato nella sua elaborazione, altrimenti diventa difficile spiegare ad un neofita persino perché Allevi non ha nulla a che vedere col jazz, giusto per dire... Sarò conservatore e/o di bocca buona, ma il jazz dopo tanti anni ho imparato che scaturisce sempre da "come" si suona, non da "cosa" si suona e questa versione cantata ne possiede i requisiti. Saluti.
 
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