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Mondo Jazz

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« IL FINE SETTIMANA A MILA...ANCORA SU BLACK AMERICAN... »

IL JAZZ NON E' MORTO MA E' RAZZISTA....

Post n°2102 pubblicato il 13 Gennaio 2012 da pierrde

Dopo decenni di sterili polemiche sulla morte del jazz ecco un netto cambio di rotta: il merito è di Nicolas Payton e dei musicisiti raccolti attorno al BAM, Black American Music.

Payton, unitamente a Gary Bartz, Orrin Evans, Marcus Strickland e Ben Wolfe rigetta il termine "jazz", una parola che a suo dire è in odore di pensione oltre che essere razzista; si propone quindi di usare Black American Music  per definire e racchiudere la musica nero-americana.

Tutto ciò, a dire del musicista, senza entrare in polemica e senza critica verso prodotti commerciali spacciati per jazz dall'industria discografica.

Articoli, commenti e video della conferenza stampa si possono consultare cliccando:

 

L'intera conferenza su Vimeo: http://vimeo.com/34718095 http://nicholaspayton.wordpress.com

http://alternate-takes.com/2012/01/06/bam-at-birdland/

http://blogs.phillymag.com/the_philly_post/2012/01/10/call-jazz-call-black-american-music/

 

Solo poche parole a commento: tutti i musicisti coinvolti nell'associazione sono ottimi professionisti, qualcuno con decenni di storia sulle spalle. L'idea, comunque la si valuti, mi sembra ricalchi molto da vicino i concetti della Great Black Music di chicagoana memoria. Ma, al di là dei termini che si possono o si vogliono usare, la differenza come sempre la farà la musica.

Auguro a Peyton di lasciare una traccia durevole e significativa nella storia della musica afro-americana (spero mi passi il termine), perlomeno quanto Art Ensemble of Chicago e tutti i meravigliosi musicisti usciti dalla fucina della AACM. 

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Commenti al Post:
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rodolfo il 14/01/12 alle 00:23 via WEB
Il jazz non sarà morto ma loro specificano che dovrebbe chiamarsi \\\"black\\\", quindi nera, cioè eseguita da uomini di colore, \\\"american\\\", quindi americana, eseguita da uomini di colore americani. Hanno ragione a voler mettere i paletti perchè non si capisce l\\\'accanimento di certa critica a voler etichettare come jazz qualunque musica che jazz non è in nome delle presunte capacità adattive di questa musica che invece, a detta degli afroamericani (tu citi la Great Black Music, io aggiungerei Roach)deve restare ben salda nei parametri che la sua storia ha stabilito. Oggi assistiamo a festiva denominati \\\"jazz\\\" dove suonano per la gran parte musicisti che col jazz non hanno nulla a che fare, ma proprio nulla nulla. Per esempio, la musica scandinava perchè dovrebbe annoverarsi come jazz? Perchè taluni annoverano tra i musicisti jazz uno come Paolo Angeli? Braxton ne ha preso le distanze con decisione e, direi anche con notevole stizza eppure continua ad essere considerato un jazz musician. La verità è che oggi come oggi, il miglior musicista jazz è Wynton Marsalis. Lui continua a riprodurla con grande perizia tecnica e con la precisa coscienza della sua posizione nella storia.
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Stefano il 14/01/12 alle 13:26 via WEB
Gli ottimi Nicholas Payton e Orrin Evans pongono una questione che in parte trovo fondata, ma restrittiva. Credo invece che -mistificazioni a parte- la parola Jazz abbia connotato una esperienza che non può essere riportata solo alla sua origine "nazionale" neroamericana. Si è infatti intersecata e arricchita o ibridata, sa nelle tendenze sviluppate localmente negli States -a L.A. non si suona e non si è suonato lo stesso jazz di Chicago e a New York e New Orleans....- sia -ovviamente- nelle varie tradizioni non americane del jazz, che pure si sono sviluppate, come la scandinava e la italiana o francese e perfino sudafricana, per non dire di una possibile "color line" interna alla stessa tradizione americana e sempre ripetutamente attraversata in lungo e in largo -prendiamo per esempio Bill Evans nel quintetto/sestetto di Miles Davis o a N.H.O.P. e Herb Ellis con Oscar Peterson- da moltissimi dei protagonisti. Temo inoltre che una connotazione del genere -razziale o etnica che la si voglia intendere- rischi di confinare il Jazz, ovvero la BAM, nei confini più o meno stretti di musica per l'appunto etnica con ciò provvedendo a delimitarne l'impatto e l'importanza, se non proprio a sminuirla. In realtà trovo che in questo modo si seguano troppo strettamente gli assunti del Guru Stanley Crouch, che già il peraltro ottimo Wynton Marsalis ha riportato nella sua controversa ma interessantissima uscita "Come il Jazz può cambiarti la vita" -e parla del jazz e usa questa parola- Payton mette in chiaro che molti interpreti bianchi hanno segnato la storia di quella che chiama #BAM, http://nicholaspayton.wordpress.com/2012/01/12/bam-is-for-people-of-all-races-sexes-cultures-and-colors/ ma insiste sul punto: "a White, racist moniker (the j-word)". La parola JAZZ è stata a suo dire denigratoria dal principio, e ammettiamo pure che lo sia stata, in qualche misura. Resta il fatto che una parte enorme del pubblico mondiale del jazz -che in genere e storicamente è costituito, nelle parti che hanno stabilito il trend, da élites artistiche e intellettuali- non l'hanno inteso in quel modo, ed è l'uso che modifica il campo semantico e l'offensività o innocuità di ogni singola parola. Quale sarebbe la conseguenza da tratte, poi, dovrebbero tutti, appassionati e stampa, trasmissioni radio e club, cambiare il "nome della cosa"? Tutti i festival del mondo che usano la "derogatory J-word" dovrebbero cambiare nome? Mi pare talmente improbabile da essere in fondo improponibile, almeno in termini che vadano al di là di -fondate o meno, non è questo il punto- querelles che assumono per certi versi il sapore di una azione collettiva di rivendicazione proprietaria. Sono curioso, infine di vedere quale sarà l'atteggiamento di Payton e degli altri, quando verranno invitati a qualche festival intitolato con "quella parola" o magari al "Jazz at Lincoln Center" diretto da Marsalis. Rifiuteranno sdegnati? Faranno precedere ogni loro esibizione da una premessa sulla #BAM? La parola Jazz ha una sua storia, che non basta e certo non può descrivere o connotare precisamente un ramo della musica attuale e passata, ma è nell'uso, ed è l'uso a fare legge, anche sotto il profilo sociolinguistico. Diciamo allora che Jazz è quella cosa che un numero vasto di cosiddetti esperti e/o praticanti reciprocamente riconosciuti chiamano con quel nome. Ed è un destino che tocca a gran parte di quello che possiamo chiamare ARTE o magari letteratura o -perché no?- attinente alla sfera del "sacro".
 
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Luca Conti il 14/01/12 alle 14:14 via WEB
Passano gli anni - anzi, i decenni - ma la sostanza non cambia: ognuno (musicisti, critici, ascoltatori) è fermamente convinto di poter dire cos'è il "vero" jazz, ovvero soltanto quello che piace a lui. E comunque il problema che pone Orrin Evans, cioè che al 95% dell'attuale comunità nero-americana del jazz non può fregare di meno, non si risolve certo cambiando il nome della musica in questione. Come al solito, c'è chi guarda il dito e chi la luna.
 
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riccardo il 15/01/12 alle 11:15 via WEB
In effetti sembra una discussione già sentita...e mi pare che abbia accompagnato il Jazz da quando è nato o quasi. Certe discussioni come minimo risalgono ai tempi di Hughes Panassie e si ripropongono ciclicamente. Sul fatto poi che il Jazz rischierebbe di essere una musica etnica, mi pare discussione addirittura preistorica più che obsoleta, visto che il problema della sua emancipazione da tale stato sia avvenuta ancor prima del tema generale posto da Payton, direi anche qui come minimo nel passaggio dai collettivi New Orleans a Louis Armstrong (detto a grandi linee senza pretesa di precisione temporale o di evento musicale che lascio a chi di competenza). Di fatto il Jazz è un linguaggio universale da quasi un secolo. Mi basta ascoltare qualche solo di Louis Armstrong degli anni '20 per comprenderlo. Una musica in sostanza basata (anche qui in estrema e grossolana sintesi) in particolare sulla capacità di utilizzare il ritmo, nelle sue varie declinazioni, in ambito melodico, non necessariamente improvvisativo, ma direi in particolare in ambito di improvvisazione. Non so se questa idea che mi sono formato sul jazz in decenni di ascolto e anche pratica, seppur dilettantesca, sia quella esatta o corrispondente a quella di altri tra musicisti, critici e ascoltatori, o sia un'idea non "progressista". Poco mi importa, quel che so è che quel requisito è quello che ha sempre dato una sua specificità a questa musica e la resa grande ai miei occhi. Il resto mi avanza e non ho certo la pretesa di convincere altri che la vedono diversamente o, peggio, imporre le mie convizioni. So solo che in linea di massima comprendo bene il punto di vista di Payton con il quale sono sostanzialmente d'accordo, perché è un fatto che oggi circolano musiche e musicisti, secie in ambito Europeo, che con il jazz non hanno sostanzialmente più nulla a che fare. Non ho problemi con lo sviluppo di tali musiche e il loro progredire, ma anch'io penso che non sia corretto, e l'ho scritto tante volte anche qui sopra, etichettare con la parola Jazz tali musiche facendo poi credere che si tratti di uno sviluppo evolutivo del jazz africano-americano o della Black American Music, come sostiene Payton, o che dir si voglia. E' semplicemente una balla colossale spacciata per verità, che da troppo tempo persegue, a mio modesto avviso, intenti ben precisi, non propriamente artistici o musicali, e che provocano da sempre nei muscisti neri la sensazione di estirpazione della propria cultura. Li capisco. Riguardo al discorso di Marsalis di Rodolfo anche qui mi trovo, seppur parzialmente, d'accordo. Trovo le critiche quasi unanimi della critica e musicologia in particolare europea a questo musicista come minimo sempre esagerate e anche abbastanza poco obiettive, perché se si scandaglia bene nella sua discografia, spesso si rintraccia un musicista, un jazzista e un trombettista sopraffino, di livello oggi poco paragonabile e trovo quasi incredibile che vengano posti sul piedistallo dagli stessi critici degli autentici nani al suo confronto, ma tant'è. Io me ne frego di certi sordi pareri come ben sapete e ascolto con le mie orecchie che mi bastano e avanzano.
 
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riccardo il 15/01/12 alle 11:18 via WEB
scusate per lo strafalcione...l'ha resa...ogni tanto mi scappano ancora le a con l'acca...
 
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riccardo il 16/01/12 alle 10:22 via WEB
butto lì un altro elemento di discussione rileggendo l'intervento di stefano. La distizione eventualmente da farsi non la vedo tanto tra neri e bianchi, veramente fuori tempo, semmai tra americani ed europei. per come la vedo e soprattutto per come sento (spesso mi capita in blindfold test di riconoscere l'approccio jazzistico dei musicisti europei rispetto a quello degli americani, pur con le dovute eccezioni, valutando proprio l'aspetto ritmico, il mood nel suonare) tra bianco americano (non inteso necesariamente come yankee, pensando anche le tante influenze etniche presenti nel jazz dei bianchi extra americane) e bianco europeo. Io trovo parecchie differenze di approccio nel suonare, soprattutto sul piano ritmico. In generale termini come "jazz italiano", "jazz francese", scandinavo etc., mi lasciano dubbioso, nel senso che mi paiono classificazioni semplicistiche, di comodo per tanti aspetti, a volte persino depistanti, perchè spesso quello che sento col jazz ha davvero poco a che fare anche se sento suonare semplicemente Poinciana o un blues, non necessariamente un qualche progetto europeo su, che so, Puccini o Donizetti suonato sedicentemente "Jazz", piuttosto che Parlami d'amore Mariù suonato da Rava che di jazzistico per quel che mi riguarda non hanno in modo sin troppo evidente nemmeno l'ombra.
 
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