MySo-Called(un)Life

Post N° 1287


Mercoledì 13 ottobre 2004. TOKYO - Sette, anzi nove. Forse undici. Ieri le agenzie locali giapponesi sembravano battere un bollettino di guerra. Nel giro di poche ore, nove suicidi confermati. Due probabili. Sette corpi sono stati trovati in un pulmino abbandonato in montagna, altri due in una utilitaria parcheggiata in periferia di Tokyo. E al momento di scrivere, la polizia sta cercando di identificare altri due corpi, trovati nel “mare degli alberi”, un bosco ai piedi del Monte Fuji, tristemente noto per il suo “raccolto”. Quest’anno la polizia vi ha già rinvenuto 73 cadaveri, orrendamente maciullati da corvi e cinghiali. La stampa non ha dubbi: si tratta di suicidi collettivi, organizzati via internet da persone che dopo una vita passata in presumibile solitudine, schiacciata tra le regole ferree di una società che non ammette errori e rallentamenti, cercano, per l’ultimo viaggio, il conforto di uno o più estranei. C’era un volta il “seppuku”, il suicidio rituale volgarmente chiamato “harakiri” (letteralmente, rescissione delle budella), considerato un privilegio e dunque riservato a nobili e samurai. O il romantico “shinju”, il “salto nel vuoto”, praticato da coppie disperate, unite da amori impossibili. Dopo aver composto l’ultima, struggente poesia, si gettavano insieme da una cascata, da una montagna famosa, o, più recentemente, da balconi, terrazze, grattacieli. Tecniche sorpassate, che il Manuale del Suicidio Perfetto, da anni un best seller in Giappone (dodicesima ristampa, oltre un milione di copie vendute), cita nella lunga introduzione, prima di elencare 99 tecniche “moderne”. A seconda della forza di volontà, della determinazione, della consapevolezza con la quale ci si vuole separare dalla vita, e a seconda di come si desidera venga ritrovato il proprio corpo, il signor Wataru Tsutomu (pseudonimo dietro il quale pare si nasconda un medico) consiglia da anni i potenziali suicidi. Con ottimi risultati. Nel 2003 in Giappone si sono tolte la vita oltre 34 mila persone, una ogni 15 minuti. Tre volte il numero delle vittime della strada. Nella fascia d’età tra i 20 e i 30 anni, il suicidio rappresenta la prima causa di morte. Nell’ultima edizione – il cui successo è peraltro minacciato da una nuova pubblicazione, Daiojojo (Morire in pace), di Rokosuke Ei, best seller del settore con un milione e mezzo di copie vendute – l’autore introduce l’inquietante fenomeno del suicidio via internet. Pare che nella prima stesura avesse persino indicato i siti dove rivolgersi per trovare eventuali compagni di viaggio. Ma l’editore, bontà sua, ha deciso di censurarli. Non che la cosa faccia molta differenza. Chi ha deciso di farla finita, e cerca solidarietà e complicità, non deve far altro che digitare sull’edizione giapponese di qualsiasi motore di ricerca una parola: jisatsu (suicidio). Almeno una ventina di siti rispondono all’appello, offrendo consigli, chat room, l’elenco delle compagnie di assicurazione (che in Giappone, almeno sinora, pagano anche in caso di suicidio) più affidabili, e persino i numeri di telefonino di disperati in lista d’attesa. “Ciò che preoccupa non è il fenomeno in sé, che fa parte della nostra cultura  – spiega il sociologo Yoshihide Sorimachi – quanto il radicale mutamento delle condizioni sociali e delle motivazioni che spingono al suicidio. Anche se per noi giapponesi il suicidio rappresenta una onorevole via d’uscita, dovremmo chiederci seriamente perché, a compiere questa scelta, oggi sono non solo i cosiddetti falliti, ma anche i nostri giovani, ai quali, apparentemente, non manca nulla”. [fonte]Avevo già sentito parlare di questo fenomeno nel manga "Daydream", che, al di là delle apparenze, è fin troppo realistico. Proprio lì avevo conosciuto il "mare degli alberi", dove la gente va a suicidarsi, dopo essersi messa d'accordo sui numerosi siti. E poco fa ho messo in download il film JAP "Suicide Circle", sempre riguardo quest'argomento. In ogni caso, è palese come Giappone e Occidente abbiano una diversa concezione del suicidio. In Giappone, sin dall'era dei Samurai, il suicidio era visto come una morte onorevole. Lo stesso sembra essere per i Talebani, con tutti i kamikaze che saltano in aria ogni giorno. Per noi cattolici, invece, il suicidio è visto come una condanna, tanto che Dante, nella "Divina Commedia", li inserisce nel II girone, tra i 'violenti contro se stessi', insieme agli scialacquatori, e li descrive come uomini trasformati in piante.