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Il diario di Nancy

Pensieri e storie tra il vero, il verosimile e l'inganno.

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Gli invisibili

Post n°103 pubblicato il 21 Agosto 2006 da bimbadepoca
 
Foto di bimbadepoca

Venerdì mattina, da brava massaia quale sono, mi sono recata nella piazzetta davanti alla vecchia chiesa, per comprare frutta e verdura dai piccoli produttori locali.
La città ancora semivuota sembrava come addormentata, un’atmosfera irreale che ha procurato al mio animo solitario una sensazione piacevolissima di quiete.
Di un tratto è comparso come dal nulla uno di quei ragazzoni di colore, quelli che girano sempre con dei borsoni, se possibile più grossi di loro, pieni di cianfrusaglie senza valore.
Gli uomini invisibili che vivono nelle nostre città, quelli che a malapena guardiamo, quelli che poco tolleriamo, quelli a cui neghiamo la dignità d’essere uomini.

Ma questo ragazzo non aveva borsoni con sé, non pretendeva di vendere nulla, lui portava in giro solo la sua fame.
Mi ha chiesto aiuto. Inizialmente, distrattamente, probabilmente anche risentita di essere stata restituita alla realtà, ho risposto che non avevo soldi.
Ma è stato un attimo. Il tempo di guardare i suoi occhi e il suo sorriso. Aveva un bel sorriso solare che contrastava con lo sguardo triste.

Mi sono fermata e gli ho dato dei soldi, nient’altro che una misera cifra. Lui mi ha ringraziato com’era prevedibile.
Ma io continuavo a rimanere ferma e lui continuava a fissarmi, era come se d’improvviso non fossimo più il mendicante affamato e la signora che va al mercato.
D’improvviso ci siamo riconosciuti fratelli, figli entrambi della stessa umanità disperata.
Lui l’ha capito dalle domande che ho cominciato a fargli, io l’ho compreso dalla voglia che lui aveva di raccontarsi.

Mi sono tolta gli occhiali da sole, come se fosse il preciso segnale che mi predisponeva all’ascolto. Lui, infatti, ha cominciato a parlare come se da troppo tempo si portasse dentro il peso enorme dei suoi pensieri, pareva un fiume in piena, le parole straripavano acute, frammentarie, rabbiose, dolorose, seguivano un filo logico noto solo a lui.
Lo interrompevo a bassa voce, quasi avessi timore di distruggere qualcosa, per fargli domande che mi permettevano di capire. Lui si fermava e mi spiegava piano, con una rara gentilezza. E sorrideva grato perché condividevo con lui quel momento.  

Liberiano, scampato alla guerra civile del suo paese, era giunto in Europa dodici anni prima ed accolto come profugo di guerra. Era riuscito a terminare gli studi e a laurearsi in ingegneria elettronica, ma poi era stato dimenticato come la guerra che devasta ancora oggi la sua terra, dimenticato ed accatastato in un angolo, costretto ad arrangiarsi, pur di lavorare aveva accettato lavori umili, saltuari, pagati al minimo sindacale, senza mai un contratto regolare.
Dal mese di giugno non riusciva a trovare più nulla di decente, si era ritrovato di punto in bianco ad elemosinare per le strade, per racimolare lo stretto necessario per l’affitto, le bollette, il cibo.

- Sai quante volte ho trovato persone che mi hanno detto “Vai a lavorare sporco negro”? Ma se io non riesco a trovare lavoro cosa dovrei fare? Io sono umano sorella, perché devo vivere in modo disumano? - E mi mostrava le scarpe da ginnastica completamente sfondate e mi confessava di non mangiare da due giorni.
Ed io non sapevo cosa rispondergli, ho balbettato che la vita era ingiusta, che spesso i miei connazionali mi fanno vergognare, ma non ho trovato parole migliori, tutte le belle parole che uso per dipingere il mondo che vorrei e non conosco.

Mi ha raccontato piangendo che la cosa peggiore era l’insistenza con cui i familiari rimasti in Liberia gli chiedevano aiuti economici.
- Se gli dico che non ho lavoro non mi credono, mi rispondono “Ma tu sei in paradiso”. E non lo sanno, loro non lo sanno che io sono all’inferno -
Ho cercato, ho lottato per non lasciarmi commuovere, ma le lacrime hanno cominciato a rigare silenziosamente le guance.

La sua voce tremava, aveva esaurito la rabbia e gli rimaneva dentro soltanto un mesto dolore. - A volte penso che sarebbe meglio morire. Non avrei più problemi - Istintivamente gli ho stretto le mani, ho balbettato che la vita era troppo importante, un dono troppo prezioso, che non doveva perdere la fiducia, che non doveva farsi prendere da questi pensieri, ma non ci credevo nemmeno io.

Ed entrambi avevamo negli occhi lucidi tutto lo sgomento del mondo.

E mai nella mia vita mi sono sentita più piccola e inutile cosa.

 

 

 
 
 
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