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Messaggi del 08/10/2020

Paradigmi e dintorni

Post n°1377 pubblicato il 08 Ottobre 2020 da fedechiara
 

...dal web
- Il paradigma di “lego”?
- Di “lego”?
- Sì.
- “Lego, legas...”
- No, è sbagliato. Come è possibile che tu non sappia il paradigma del verbo “legĕre”, uno dei più comuni, se studi il latino già da un anno?
- La prof dell'anno scorso diceva che non serve impararli.
- Ah no? E come li coniugate i verbi se non conoscete il paradigma?
- Non è necessario saperli a memoria, perché tanto si trovano sul dizionario.
- Sì, ma andrai a cercare i più rari, mentre quelli di uso più comune si memorizzano. Funziona come coi verbi inglesi irregolari: to come, came, come, to go, went, gone...bisogna studiarli.
- Ma che c'entra, l'inglese uno lo parla, serve a comunicare. Il latino non lo parla nessuno.
- Il latino serve a fare cose più importanti che comunicare.
- Sì, vabbè, prof, l'abbiamo già sentita questa storia.
- Lo so. Allora lasciamo stare i discorsi teorici. Conoscete i paradigmi di “aspicio” e “respicio”?
- No.
- Peccato, perché sono utilissimi. Questi due verbi si assomigliano perché vengono entrambi dal verbo “specio”, che significa guardare. Da cui anche “speculum”, specchio, un vetro dentro cui ci si guarda o dal quale ci guardiamo (ma non necessariamente ci vediamo, aggiungerei io). Da “aspicio”, come ci dice il paradigma, viene “aspectum”, cioè: che è stato visto. Pensate un po': una cosa importante come l'aspetto è il riflesso di un'azione, il guardare. Senza sguardo non c'è aspetto o apparenza, perché se non siamo guardati la nostra forma esteriore non ha importanza. Quindi il nostro aspetto dipende dallo sguardo degli altri: non ci cureremmo della forma se gli altri non ci guardassero. D'altra parte, agire sul proprio aspetto significa controllare lo sguardo altrui, dire: ecco, tu vedi questo, perché lo voglio io.
- Sì, fosse così facile, prof. Gli altri ci giudicano da quello che vedono. E io ho le orecchie a sventola.
- Certo. Infatti, “aspectum” significa ciò che viene visto, non ciò che sono. Io non sono ciò che sembro. E gli antichi romani lo avevano capito così bene da saperlo dire con la parola giusta, con il participio perfetto del verbo “aspicio, is, aspexi, aspectum, aspicĕre”. Tu sei le tue orecchie a sventola, ma anche i tuoi capelli e i tuoi occhi e le tue gambe. Tutto insieme. Significa che chi ti guarda, se vuole, potrà vedere altro che le orecchie. O che non tutti vedranno solo le orecchie.
- Quindi c'è speranza anche per me, prof?
- Oh sì. Tutto dipende da chi guarda e da cosa vede. Più aumentano le variabili, più possiamo sperare. Tutti gli sguardi sono importanti, nessuno sguardo vede veramente tutto. Nemmeno il nostro.
- Caspita, prof.
- Non ho finito. Ora prendete l'altro verbo, “respicio”, che ha lo stesso paradigma. Quindi da respicio cosa viene fuori al supino?
- Respectum! Rispetto, prof!
- Ecco, un altro inutile paradigma di una lingua che nessuno parla, vero? “Respectum” significa: qualcosa che è stato guardato due volte, perché “respicĕre” indica il volgersi indietro, guardare una seconda volta qualcosa perché ci teniamo, perché ci ha colpito, perché la amiamo. Quel prefisso “re” ci fa tornare sui nostri passi, a ripercorrere un sentiero che ci porta verso ciò che ci interessa. Non si rispetta qualcuno se non pensi che sia importante. Non si guarda due volte qualcosa che non ci ha colpito. Il rispetto ha infatti a che fare con l'amore. Si può rispettare senza amare, ma senza rispetto non c'è amore. Le due cose sono collegate. Lo aveva capito anche mia nonna.
- Anche lei aveva studiato il latino?
- No, mia nonna non sapeva nemmeno l'italiano. Parlava solo dialetto siciliano. E col dialetto, in genere, non si parla di sentimenti ma di cose concrete, di corpo e non di anima. Ad esempio, mia nonna non usava mai il verbo amare. Se mi piaceva qualcuno, lei non mi chiedeva: “lui ti ama?”. L'unica cosa che voleva sapere era: “lui ti rispetta?”. Perché lei aveva capito questa cosa importantissima: che se qualcuno non ti rispetta vuol dire che non ti ama. Quindi pretendete rispetto da chi dice di amarvi, ragazze e ragazzi. E imparate i paradigmi di questi due verbi, che nella vita possono essere utili. Sì, cosa c'è, Beatrice?
- Quindi l'amore, quando è vero, vince tutto, giusto?
- Non ne sono tanto sicura. Certo, Virgilio dice “Omnia vincit amor et nos cedamus amori”, ma se cediamo all'amore è a nostro rischio e pericolo, bisogna ricordarlo sempre ed essere quindi pronti ad accettare la sfida. Orfeo perde Euridice perché si volta a guardarla prima di essere fuori dall'Ade; e si volta a guardarla perché l'ama tanto da essere sceso nel Regno dei Morti per riprendersela. La sua è una storia atroce, come tutte le grandi storie: l'avrebbe potuta salvare solo se non l'avesse amata tanto. Uno meno innamorato avrebbe resistito alla tentazione di assicurarsi della sua presenza, avrebbe saputo vincere la paura di perderla. Il che ci insegna, ahimè, che l'amore non sempre ci salva.
- Prof, sono piena di brividi! Che belle queste cose che dice!
- Non le dico io. Le dice il latino: che non è una lingua morta perché nessuno la parla più, come credete voi. Quando una lingua ci parla, e ci parla d'amore, vuol dire che è ancora viva. Quindi, per giovedì prossimo cercate sul dizionario il verbo “despicio”. Mi spiegherete per iscritto cosa significa e cosa c'entra il disprezzo con lo sguardo. Vedrete che è tutta una questione di direzione.
La lezione di vita (virale) della prof: «Ecco perché il latino ci insegna l’amore»
CORRIERE.IT
La lezione di vita (virale) della prof: «Ecco perché il latino ci insegna l’amore»

 
 
 

Comunicare e dintorni

Post n°1376 pubblicato il 08 Ottobre 2020 da fedechiara
 

 

Comunicare e dintorni 8 ottobre 2011  · 

Ho seguito anch'io, con moderata attenzione e una sottile commozione, la vicenda umana e l'avventura ultima, (il suo magnifico modo di affrontare la morte annunciata) di 'Steve', il geniale e fortunato inventore della Apple e di tutte le piccole diavolerie che quell'azienda ha prodotto.
Mi ha commosso il sapere che in gioventù ha fatto le cose che molti di noi suoi coetanei hanno fatto, seguendo le suggestioni dell'epoca nostra: il viaggio in India, l'esperienza tutta intellettuale di testare alcune droghe come curiosità di altri 'viaggi'; la curiosità di sapere quanto possa aprirsi la mente umana in direzione del futuro dei sogni.
Ma, poi, la sua vita ha preso quel corso concreto e positivo della curiosità per la tecnica e l'invenzione ed è divenuto il beniamino di tutti coloro che amano i postmoderni tamagochi sui quali esercitano compulsivamente le dita e riversano tutta l'attenzione che, prima, riservavano al loro prossimo per la strada, sui tram e dovunque si sia in contatto e in relazione con il nostro prossimo.
Già, perché, per le strade e sulle scale della metro e sui tram e vaporetti, si incontra uno sterminato numero di mutanti che sono proiettati negli altrove futuristici dei loro tamagochi -e i loro occhi sono vuoti e lontani, come se non ti vedessero e riconoscessero e tocca fare 'ciao ciao' con la mano o toccargli la spalla per risvegliarli e riportarli a terra, al 'qui e ora' dei loro corpi fisici e della loro presenza sulla scena concreta dei giorni che viviamo.
Ed è uscito un libro, di recente: 'Facebook in the rain' che viene pubblicizzato col sottotitolo 'l'amore ai tempi di facebook' e, anche se non l'ho letto, sono certo che dà conto e dice che gli amori scritti e astratti che nascono e si consumano sui 'social networks' e sulla 'Rete' sanno già di stantio virtuale e dovremmo tornare al qui e ora dei corpi fisici e del tenersi la mano e guardarsi negli occhi e tuffarsi in mare e correre sulla spiaggia e farci l'amore perché non se ne può già più di tutta questa tecnologia virtuale che ci cambia le vite e le rinsecchisce dentro ai video e nei troppi 'altrove' della tecnologie informatiche.
Non ho mai posseduto uno di quegli strumenti partoriti dalla fantasia creatrice di Steve Jobs e da quella dei suoi collaboratori, ma alcuni amici me ne decantano le straordinarie capacità di 'fare' e 'comunicare'.
A me basta il computer di casa e quel poco di telefonia mobile che uso solo in casi di vera necessità e urgenza, ma non ho dubbi che le invenzioni di Jobs appartengano al futuro della comunicazione globale e che i posteri ne faranno un uso meno malaccorto e più equilibrato di quello che che ne facciamo noi -preistorici fruitori di aggeggi formidabili che attirano la nostra attenzione ilare e stupita come fossimo i 'buoni selvaggi' di Rousseau o quelli incontrati da Colombo sulle spiagge americane e bastavano le perline colorate e gli specchi a indurli a scambi dispari.
2Argentina Dradi e Fabio Federico Marchese
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