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Darfur, andata e ritorno dall'inferno... con una speranza


Volti, sguardi, preghiere inascoltate. La rabbia repressa e
il dolore immane per una vita strappata, una dignità violata, una ferita aperta che il tempo non riesce a sanare. Tutto questo e molto di più è il Darfur, la regione del Sudan martoriata da oltre quattro anni da un conflitto che ha provocato oltre trecentomila morti e costretto due milioni di persone ad abbandonare i propri villaggi. A spingerle lontane dalle loro case è la  paura dei janjaweed, i cosiddetti ‘diavoli a cavallo’, predoni senza scrupoli manovrati, secondo fonti internazionali, dal regime di Khartoum.Dalle notizie delle ultime settimane sembrerebbe che il governo sudanese sia pronto a dar seguito al proposito di accettare il dispiegamento della forza Onu – Ua, approvata con una risoluzione nel 2006, ma non ha fornito alcuna garanzia che ciò avvenga in tempi rapidi. E proprio questo è il cuore del problema. La crisi umanitaria, già gravissima, rischia di diventare incontrollabile: gli sfollati e i rifugiati sono ormai un terzo della popolazione. Solo  nell'ultimo anno ne sono stati censiti 400 mila in più.Nonostante la complessità della situazione che si è delineata nel corso delle ultime visite degli osservatori  delle Nazioni Unite, e le preoccupazioni esternate dagli operatori delle Ong coinvolte nella missione Amis, uno spiraglio di speranza sembra accendersi.
L’elemento nuovo è la disponibilità espressa, per la prima volta, dal Jem - movimento di ribelli che non ha firmato gli accordi di Abuja del maggio 2006, sottoscritti solo da una delle fazioni che si contrappongono al governo di Khartoum - a discutere di una nuova soluzione politica. Anche sulla forza ibrida di interposizione, composta da Caschi blu e militari dell’Unione africana, i ribelli si sono detti favorevoli, ma hanno manifestato perplessità sulla convenienza del dispiegamento del contingente prima che l’area sia realmente pacificata. Basta parlare con i cooperanti presenti nella provincia di Al Fasher, nord Darfur, e i rifugiati dei campi che accolgono gli sfollati sopravissuti alle violenze delle milizie arabe per comprendere i timori di chi ritiene che l’arrivo di un contingente, che si frapponga tra le parti belligeranti, non basti a risolvere il conflitto. Girando tra le capanne di Al Salam, dove sono assiepati  50mila disperati, è facile rendersi conto dell’emergenza che si sta vivendo nella regione. Dopo gli ultimi arrivi della primavera scorsa, non c'è più posto nel campo e il governo sudanese, che controlla quest’area, non intende ampliarlo. Non viene più accettato nessuno.Il messaggio degli sfollati e di chi li assiste è forte e chiaro. ''Fate presto”. Il dramma che si vive qui è lo stesso di tanti altri centri di accoglienza: poca acqua, cibo appena sufficiente, rifugi di fortuna e tutt’intorno il nulla. L’appello di aiuto viene  pronunciato da tutti gli interlocutori che si incontrano. Un'invocazione che si legge sul volto delle donne e degli uomini assiepati nell’accampamento che dovrebbe
garantirgli la sicurezza. E invece non è così. Dopo le quattro, appena comincia a calare il sole, gli operatori umanitari e gli addetti ai controlli vanno via per passare la notte a Al Fasher. Ad Al Salam, un’enorme distesa di tende e di capanne che si estendono per chilometri nell’arido deserto sudanese, interrotte solo dalle tre grandi cisterne dove si conserva l'acqua, cala il buio: non ci sono generatori. E nessuna difesa. Una situazione disperata, che coinvolge sempre più persone inermi, per lo più bambini e donne. Proprio queste ultime sono le principali vittime delle milizie arabe che, a detta delle ong presenti sul territorio, sarebbero utilizzate dai vertici governativi di Khartoum nella guerra contro la ribellione darfuriana. Nel campo le testimonianze delle violenze sono tante. Donne e adolescenti picchiate, torturate, stuprate. Vittime penalizzate due volte: quelle che sopravvivono allo stupro e lo denunciano, oppure non riescono a nasconderlo, vengono rifiutate dai mariti e allontanate dalle comunità. Il racconto di Kalima, che parla solo arabo e riesce a comunicare con noi grazie a un’operatrice di Icr, la ong che gestisce il campo, e tra i più dolorosi. “Mia cognata è stata presa da un gruppo di tre uomini –
dice con lo sguardo basso e senza smettere di intrecciare il cesto a cui lavora insieme alle altre donne impegnate nei laboratori organizzati dai cooperanti -  Si era allontanata dal villaggio, ma non tanto, per raccogliere legna. Era sola. E proprio per questo l’hanno punita. L’hanno violentata perché, le hanno detto, non muovendosi in gruppo se l’era cercata. Quando è tornata e ha raccontato quello che era successo mio fratello l’ha cacciata e nessuno della famiglia l’ha aiutata. Ora è morta…”.Non aggiunge altro Kalima. Non può. La nostra interprete ci dice che spesso le donne che subiscono questa tragica sorte si suicidano. Chi viene emarginato dalla comunità non ha molte speranze. L’inferno del Darfur è anche questo.