Creato da NeverInMyName il 09/11/2005

NeverInMyName

Gli orrori della guerra, una macchia sull'umanità. Per non vanificare il sacrificio di tante vittime, per non assistere inermi a un altro Vietnam, per non giustificare un'altra invasione come quella in Iraq. Per dire mai più a un altro Darfur: stand up togheter!

 

 

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Una lunga scia di sangue innocente

Post n°470 pubblicato il 01 Giugno 2007 da NeverInMyName


Afghanistan, più di trecento civili uccisi in soli quattro mesi
 

Nei giorni scorsi è stato presentato un nuovo rapporto dell'Onu sulle vittime delle operazioni militari e delle violenze dei talebani in Afghanistan. Secondo i dati in possesso delle Nazioni Unite i civili uccisi nel primo quadrimestre 2007 sono tra i 320 e i 380.
Richard Bennett, responsabile per i diritti umani della Missione  di Assistenza Onu in Afghanistan, ha affermato che i talebani non esitano a sacrificare vite di innocenti utilizzando come scudo le abitazioni di civili. Di conseguenza le operazioni militari mirate a stanare i terroristi colpiscono intere famiglie che con i talebani nulla hanno a che fare.
Bennett ha sottolineato che le morti di civili causate dalle truppe della Nato o Usa sono un problema complesso e "difficile da  sbrogliare".
"In alcuni casi le persone sono considerate talebani da una parte e civili dall'altra", spiega. "Molti afgani hanno armi nelle proprie case. Ma possono non essere talebani. Oppure possono esserlo o appartenere ad altri gruppi di insorti".
Le morti dei civili sono uno dei punti di attrito tra il  presidente afgano Hamid Karzai e le forze Nato e americane che spesso negano le responsabilità dei bombardamenti o delle azioni contro la popolazione vigliaccamente strumentalizzata dai talebani.
Ogni qualvolta si contano vittime tra la popolazione, l’Isaf puntualizza di «non essere al corrente di coinvolgimenti di civili nelle operazioni militari».
Poco più di tre settimane fa, nell’area di Shindand, nella parte meridionale di Herat (zona di competenza dei militari italiani), un raid aereo della coalizione a guida Usa aveva fatto oltre cinquanta vittime civili scatenando manifestazioni antiamericane in tutto il paese. Proprio riferendosi a questo episodio, il ministro della difesa italiano Arturo Parisi, visitando settimana scorsa l’Afghanistan aveva chiesto un maggior coordinamento tra la coalizione a guida Usa e le truppe Isaf definendo «inaccettabili» i raid americani. Ma ieri, con i nuovi caduti tra la popolazione, la posizione e le parole del ministro Parisi appaiono del tutto vuote e inutili.
 

 Proprio dall’Afghanistan mi ha scritto un amico, che è lì per lavoro e ha scitto un breve reportage. Si tratta della testimonianza diretta di una persona attivamente coinvolta in Italian blogs for Darfur - movimento di cui faccio parte -  e che da alcuni giorni è nella provincia di Herat.
E’ un racconto intenso, impregnato delle sensazioni che quel mondo - a molti di noi sconosciuto – trasmette a chi si trova faccia a faccia con la drammaticità di questa martoriata realtà… ma scopritelo da soli. Tuffatevi in questa lettura e carpitene l’importante, forte e consapevole messaggio che trasmette. 

Grazie a te, caro amico…

Viaggio nell’inferno afgano 

Naseer Ahmad è il capo della polizia di Farah. Un guanto nero nasconde la sua mano sinistra, ma nulla può l’occhio di vetro contro la durezza del suo sguardo monocolo, mentre mi racconta i suoi dolori. 

 - Ho perso quattro persone della mia famiglia, in questa regione, quando mio fratello era capo della polizia. I nemici gli hanno teso una imboscata e lo hanno ucciso, insieme agli altri della famiglia che viaggiavano con lui. 

Lo dice senza mai voltarsi, a indicare un luogo, una direzione, ma aggiunge: 

- Io so chi è colpevole in quest’area. 

Siamo partiti all’alba, ancora immersi nel silenzio della notte che è andata, e ancora ce lo portiamo dentro il silenzio, per tutto il viaggio fino al punto di stazionamento, con il solo timore di essere preda di un ordigno ben posizionato. 

Per il resto, sembrano invincibili le corazze metalliche entro cui ci muoviamo, loculi arroventati “solo per altri”: - si vede che era destino - dicono. 

I warnings di possibili presenze talebane si rivelano fortunatamente infondati, così niente disturba il nostro procedere lungo la striscia d’asfalto che divide solitaria questa regione, da Herat a Kandahar, la ‘ring road’. 

Dai finestrini blindati scorre un film mai visto prima: improbabili bazar di stracci e ricambistica contornano le vie dei piccoli villaggi tra gli sguardi acerbi ma talvolta benevoli di giovani e adulti. Chiuse in tante piccole case di fango, arricchite spesso da imprevedibili, anche nella loro semplicità, cupole e decorazioni, le famiglie consumano lente la loro porzione personale di storia. Ci sono tanti bambini per le strade nei villaggi, in gruppi o con il proprio padre, corrono verso la strada incuriositi, oppure indifferenti verso la campagna, sono piegati a cercare l’acqua dentro un pozzo, o a portarla in casa alla madre parca di carezze. 

Scorrono via veloci gli occhi dei bambini della provincia di Shindad, e portano via con loro un po’ della mestizia di questi posti. 

A guardarla dall’alto questa regione sembrerebbe un immenso deserto inospitale, eppure l’uomo vi abita da sempre, con fare riservato. 

Sullo sfondo, spirali di polvere e vento si alzano al cielo. Ma anche il vento si prende delle pause ogni tanto e il tempo si fa più afoso. Poi, lentamente, riprende a soffiare. E il giorno prende infine il largo. 

L’interprete, Mohammed Allem, mi confida che anche lui è stato testimone di un’altra sciagura. Ha 25 anni, ma ne dimostra ben più di un coetaneo europeo. 

- Avevo circa vent’anni. Più di cento persone erano di fronte a me, alla fermata dell’autobus, [a Herat, ndr.]. Sono stati tutti uccisi da un razzo, non so perché e da dove venisse, ma io sono sopravvissuto, e questo è il potere di Dio.

E’ mussulmano, ma non dice Allah, traduce ‘God’. Più tardi gli chiederò se sia praticante, e perché non lo abbia mai visto volgersi alla Mecca: - Non puoi vedermi pregare perché questo non è un buon posto, Dio lo sa. 

Allem ha tre fratelli, e vive con la famiglia benestante a Herat, dove si è laureato in Lingua Inglese. 

Era alle scuole medie quando il regime dei talebani si incamminava verso il tramonto. - Gli studenti volevano essere liberi di conoscere, studiare, fare feste con amici, ballare, andare al cinema e ai concerti, ma tutto ciò era impossibile - e – sei, sette anni fa le ragazze non potevano andare all’università. Come tanti altri ragazzi della sua età, Allem si rifugiava nella sua - special room - con il computer e la televisione satellitare. I mass media possono migliorare l’aspirazione di libertà – mi dice Allem, che invitava anche i suoi amici dentro la stanza, ma - fuori solo picnic.

- Hai mai avuto paura che i talebani venissero a conoscenza della tua stanza? O che i tuoi vicini glielo dicessero? – gli domando. 

- No, i miei vicini non potevano sapere della mia stanza, perché era dentro casa e nessuno poteva accorgersene. 

All’ombra di un edificio, Allem ed io guardiamo di fronte a noi le montagne bruciate dal sole. Allem mi conferma che all’inizio dell’estate, nella stagione delle piogge, queste stesse montagne sono verdi. 

- Ora può iniziare una nuova era di sviluppo e democrazia per l’Afghanistan, che ne pensi? 

- Si, ora ci saranno grandi possibilità di sviluppo economico. Ma speriamo che il tempo dei combattimenti finisca e si faccia tanto per migliorare l’istruzione del popolo afghano.

 
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