Le nubi si torcevano vive, come schiuma in volo
bianche, contro un cielo d’abisso, nel vento del largo.
La spiaggia di piccoli sassi, grigi e rotondi, era curva, laggiù
piegava e si induriva nel promontorio, tuono della scogliera.
Nel mio occhio bagnato giravi come un granello di luce
lontanissimo ancora, rosa come papilla di madrepora
che pulsa e si ritrae per il respiro vago del calcare.
Poi sei cresciuto, ti sei fatto ragazzo, e raccoglievi
chinandoti conchiglie che non volevi conservare.
Le lanciavi nell’oceano-tempo come un’altra domanda
e l’undicesima onda te la rendeva, ma tu eri già andato via.
Così ti avvicinavi, ignaro di me, del mio occhio bagnato
che non poteva non vederti, non poteva fare un ultimo buio
abbassando la notte della palpebra suoi tuoi passi svogliati.
Solo adesso mi scorgi, ma ancora non capisci, guardi
ma non vedi, perché nelle pagine di mare della tua testa bionda
non c’è niente di simile a me, niente se non tronchi
graffiati, incrostati, fradici di mille e una notte di oceano.
E poi il mio colore non si distingue dai sassi della spiaggia:
grigio ardesia, grigio acciaio, e candide venature di quarzo
che disegnano geroglifici strani sulla mia pelle invecchiata.
Ti avvicini, e finalmente vedi le pinne, sbocconcellate dal tempo
dalle conchiglie dei giorni, e cerchi l’occhio, allo spigolo della bocca
ed eccolo lì, eccomi, sono io, spiaggiato senza speranza
un grampo venuto dal fondo per scombinarti lo stomaco.
2
Guardami. Fa scivolare le dita sui miei contorni di gomma.
C’è la pinna dorsale, come l’onda che disegnavi da bambino,
il morbido declivio della schiena, fino al salto della testa.
Vedi? Non sono un flessuoso delfino, non c’è traccia di rostro
la fronte cade a picco sul labbro, leggermente infossata
e quattordici denti, quattordici, uscivano dalla mandibola sfuggente.
Sono tozzo, pesante, più timido e riflessivo degli altri
ma ho avuto anch’io i miei giochi, le mie lotte nell’acqua
lontano dalle coste, dai bassifondi, dalle baie luccicanti come catini.
È tutto scritto quassù, sui segni della mia fronte quasi bianca
sui fianchi graffiati a giravolte, a nodi, a strisce parallele
come i disegni al buio di uno stecco incandescente
come fossili di idrogeno sulla lastra notturna del cielo.
Inutile provare a leggerli, dovresti tornare sui banchi di scuola
ma di corallo, questa volta, nelle aule blu, attraversate dalle correnti
a compitare su pallottolieri di vertebre di balena
e a scrivere nell’acqua con l’inchiostro dei calamari.
Ascolta me piuttosto, se i cigolii e i fischi della mia gola
somigliano a qualche lingua conosciuta, ascoltami
perché la mia pelle si asciuga, e non mi resta più molto da respirare.
3
Sì, forse capisci. Ti sei seduto a guardare, e se fischio o singhiozzo
in quest’aria che comincia a bruciare, che mi secca la lingua
tu trasali, spalanchi gli occhi, e in quei tuoi occhi io mi ci vedo
mi bagno ancora per poco nel tuo azzurro stupore.
Forse capisci, forse. Allora avvicinati alla mappa della mia pelle:
c’è il nero delle scarpate, le faglie, le forre profonde come l’ardesia
e il gesso bianco delle coste, delle linee di livello, delle correnti.
Là si radunavano i calamari, qui stazionavano le orche
e a destra del mio occhio, in quel lago di buio
nella calma tropicale, io, proprio io, sono nato.
Piccoli pesci mi solleticarono che ancora la placenta
non mi aveva svestito, nell’abbraccio meno caldo dell’acqua
crepitavano sulla mia pelle, lasciavano minuscole impronte di labbra
come zampe di uccelli sulle spiagge del mio inizio.
Il sangue fu diluito e disperso e nuvole di latte dolcissimo
passarono nel mio palato, piovvero tiepide, provai gioia
liquida, compatta, dal muso alla coda… ancora mia madre
ma già me stesso, carne fasciata dalle acque, stretta dal vuoto.
Tutto era buio e luce, freddo e tepore, compagnia e solitudine
ma qualcosa per me diceva già alla mia coda di spingere.
Il liquido salato mi succhiò in avanti, si richiuse, mi fermò
battei ancora la coda e scivolai, e tutto scivolò via, e ritornò…
a colpi di pinna per trentaquattro estati, da allora a ora, fino a qui.
Sono lo stesso corpo, sono io, anche ora, dopo tutti quei mari
tutto è scivolato via, e tutto è ritornato al suo momento:
mia madre ha ritrovato la sua spiaggia, e io sono arrivato alla mia.
4
Guardami, guarda. Questa cicatrice e questa sono state il primo squalo
e questa, così vicina al naso, ha sfiatato il primo sangue versato.
Ma la mia vita era all’inizio del cerchio, e non dovevo morire.
Cominciarono invece le prime cacce, giù nelle fosse
sulle scarpate sommerse dei continenti, nei pozzi
profumati di calamari, dove andavamo a picco per mangiare.
Cantavamo, mia madre ed io, e le seppie incantate si fermavano
a guardarci, e noi le coglievamo così, staccandole dalla vita.
I monti e le valli del mare erano buio e blu e canto
e le estati passarono, migrando, come greggi di crill.
Gli squali, una volta crescito, persero interesse al mio corpo
ma ecco le reti, i palangresi, le tonnare, a setacciare e raccogliere
sostentando vita e alimentando morte, per qualche idea che mi sfuggiva.
Alcuni di noi ci finirono per sbaglio, e noi li lasciammo al loro buio
anche se da lontano, negli strati dell’acqua, si udivano le loro grida.
Non potevamo impazzire per loro, non potevamo salvarli
e allora via, ad accettare altrove quel fardello di libertà
sapendo che siamo ciò che siamo, che c’è sofferenza e apertura
effimero e bellezza, diversità e movimento perpetuo.
Per fortuna i calamari finivano, e noi ci spostavamo a pascoli nuovi
finalmente via dalla condanna dell’immobile, dal laccio di un parallelo.
Salivamo a Nord o calavamo a Sud negli oceani, nei mari piccoli
oscillavamo come fusi tra i bassifondi delle coste e i timidi abissi
e in tutto quel tessere graffi di ordine e libertà amai soprattutto il caos.
L’ordine era nel numero delle vertebre, le stesse da madre a figlio
era nelle crescite del corallo, ma c’era anche il disordine che sparpaglia
che sgretola nella morte e ne alimenta altra, senza un perché.
C’era poco da sapere: l’ordine è la matrice e il disordine è vita.
5
Mi ascolti, ragazzo? Il sole scompare dietro la tua spalla dorata
e tu ti fai ombra lentamente, le nuvole sono gialle e rosa nella laguna
e stelle… appaiono già le prime stelle, quelle che mi hanno guidato
assieme al sole, al sapore del sale, al calore delle correnti
ai rumori dei fondali ignoti, che rimandavano l’eco dei nostri fischi.
Come tutto era silenzio! Un silenzio necessario, crudo
annidato nel boato della tempesta o nei canti notturni delle coste
ordine interno e moti selvaggi, qualcosa di insopportabile per il tuo mondo.
Allora il controcanto delle vostre macchine ha assordato il mare
percuotete anime di bronzo e corpi di bestie gonfiano intestini di ferro
reti spezzano cicli, interrompono senza perpetuare, e l’illusione
che vi aiuta vi uccide… siete dominio, siete oppressione
trasformate la caccia in qualcosa di osceno e furioso
il più feroce tra noi è un cacciatore, il più mite tra voi è un guerriero…
voi, focolai di sfinimento, voi, che non sapete più guarire
siete come un branco di orche che fa cerchio attorno alle prede
un anello di denti… ma le orche colpiscono e se ne vanno
mentre voi imprigionate per consumare domani
autoesclusi dal tutto, lontani troppo dalla danza crestata del caos.
I nostri sistemi selvaggi, il vostro sistema di oltraggi
l’ordine improprio dei vostri palamiti, la legge dei vostri arpioni
legno nelle vostre mani, ferro nelle nostre carni. Il mare, sì
è affilato come un dente, ma la sua vita selvaggia è per la vita
e col suo solo esserci denuda i vostri sbagli. Allora guerra al mare
e tempeste sonore sui morbidi discorsi delle specie…
6
Dove sei? Non ti vedo. Le stelle sono fiorite come madrepore
riconosco in loro la balena franca, la megattera, e là, piccolina
la fronte di mia madre, tutte costellate di graffi e funghi e parassiti
sulla notte delle loro pelli. Come splendono! E le terre selvagge
le grandi pianure del mare, a perdita d’occhio, i grandi animali…
balene come bisonti, capodogli come orsi, orche come lupi.
I globicefali vanno a Nord come le renne, i delfini brucano immensi
i grampi cercano la libertà, gli zifii sono soli… Dove sei?
Vedo la spiaggia scura, vedo gente che accorre
con fuochi e lame nei pugni…
Dove sei, ragazzo? Sei ancora lì? Dove sei?
Loro si avvicinano…
Mi hai ascoltato? Hai sentito la mia storia?
Astieniti dal primo colpo, allora, fallo per me
un grampo venuto dal profondo
per ritornare al tuo mare.
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