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Nugae

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Monteverde

Post n°161 pubblicato il 21 Aprile 2009 da leitraot
 

Copertina Monteverde
“Casa mia è sulla frontiera e non sono il solo a pensare sia un’altra città. Pasolini poteva spiegarvelo, ha mancato”.
 
È Franchi, quindi, a raccogliere quest’eredità, c’è lui adesso nel quartiere a rinnovare la tradizione dei narratori del secolo scorso, lo scriveva già in Pagano. E allora Monteverde, che viene a chiudere la trilogia inaugurata con Disorder, è una promessa mantenuta. È il ristabilito New Order e porta già nel titolo l’omaggio imprescindibile alla sola Roma cui appartiene: quell’isola di via Fonteiana, a pochi passi dal Gianicolo.
Con Monteverde, pertanto, l’autore amplifica e contemporaneamente sintetizza i due libri precedenti, esaltando pure quella capacità introspettiva che avevamo già riscontrato nei versi de L’inadempienza e riuscendo a dare piena coesione al proprio percorso, senza mai tradire i temi cardini della sua scrittura, anzi evidenziandone la centralità. Così ecco che ritorna la critica feroce alla società contemporanea, ritorna il dissenso che rimarca distanza dalla mediocrità. Ritornano Guido Orsini e l’idealismo romantico di una prima persona che vede le proprie illusioni schiantarsi contro la realtà, ma smette di scappare perché “è bellissima per quanto è cruda, dolorosa, artificiale e nulla. È faticosa, la realtà. È il sogno lucido che aveva dimenticato di sognare”.
Il libro si divide in sei sezioni intitolate: Casa, Lavoro, Donne, Musica, La Roma e Patrie lettere, intervallate da splendidi interludi e precedute, in apertura, da un antefatto che è dichiarazione d’identità con la ridondanza di quel “sono” a delineare il ritratto perfetto dello scrittore nella sua fragilità, racchiusa in quella sigaretta che fuma soltanto, senza spegnersi. E in quelle mani, le sue mani, che consiglia ad un tu generico di mutilare.
Lontano dal diarismo Monteverde si pone, quindi, come la graduale presa di coscienza di un io che sa raccontarsi, con tutte le sfumature di un’intelligenza in grado di passare dal lirico al tragico non disdegnando il comico, ma anzi fondendo amarezza ed ironia, poesia e disincanto. Franchi fa della propria storia personale la prospettiva privilegiata da cui guardare alla sua generazione e “ruba un frammento di tutti i discorsi e dipinge per pennellate nervose il divenire del non è”.
Ci porta nella sua mansarda. Inverte lo zerbino da out ad in e ci lascia valicare il primo confine, oltre quel pianerottolo che “è la terra del suo primo bacio”, dentro quelle mura che sono una fortezza a custodia dei suoi ricordi. E si avverte tutto il sapore dell’eccezione perché lui “ha un legame di possesso assoluto nei confronti del proprio territorio e della propria casa, (convinto che) tutto tenda a capitargli là”.
Soffre le invasioni di telefono, cellulare o citofono. “Soffre tutto ciò che va ad interfacciarsi col suo sistema nervoso, peggio ancora se è irrichiesto”, ma ci accoglie in quella che definisce più volte la propria tana.
Ci porta in quel territorio magico di piante e bellezza tutt’intorno, sotto un ombrellone dalle ali gigantesche che costituisce un’oasi per anime affini, trasformandosi nella sede per le riunioni della rivista universitaria. Sono gli anni stupendi in cui lui ed i suoi amici “erano giovani pieni di speranza, voglia di essere e di creare” e la terrazza diventa “la redazione, l’ufficio della loro piccola Arcadia”.
Addirittura ci conduce in quei due metri inviolabili e sacri del salone, dove era stato collocato il catafalco per l’addio solenne al nonno, “all’uomo che lo amava più di ogni altra cosa al mondo e che non aveva finito di prepararlo alle cose della vita”.
È il nipote che osserva la morte attraverso la logica ferrea ed ingenua dell’infanzia. Lui domanda, vuol capire quello che non riesce a spiegarsi. Perché “la forma mentis del bambino si fonda su tutta una serie di implacabili sicurezze, date per acquisite e mai più smarrite. Una di queste è che le persone che lo stanno allevando saranno protagoniste per sempre della sua vita”. Ma non è vero che non capisce. È stupido pensare che i piccoli non ci riescano. Lui capisce, invece. E si sente escluso, vive come un’ingiustizia l’impedimento a stare con il nonno. Conosce così il gelo, il dolore e lo smarrimento del non ritorno che lo rendono indifeso di fronte a qualcosa che non sa accettare, e tuttavia cerca di interpretare secondo categorie concrete, perché a otto anni il concetto astratto di morte è estraneo al proprio mondo e allora se il nonno non si sveglia, “è come quando spengo qualcosa con la differenza che non so come si riaccende ma ci deve essere un modo. E il modo no, non c’è”.
La casa è il cuore pulsante della sua memoria emotiva e testimonia pure singolari contraddizioni: sprovvista di aspirapolvere, un fusillo attenta al cortocircuito totale, ma i libri abbondano. “Si vede che le passioni bruciano proprio tutto il resto”. È inevitabile, quindi, soffermarsi ad ammirare la sua biblioteca ordinata per nazionalità dove parcheggiano, indesiderate, le pubblicazioni autoreferenziali e scialbe dei vari accademici cui si è rivolto da studente, nella convinzione che fossero gli unici interlocutori plausibili, per ottenere un giudizio su ciò che scriveva. Ma ognuno di quei volumi con tanto di dedica finisce col riassumere “la storia di una sua speranza infranta”, divenendone simbolo. Perché “l’Università non è il tempio della Letteratura, né i docenti gran maestri o sacerdoti”. E lo capisce presto sperimentandolo sulla propria pelle. Lui, “donchisciotte post litteram che predica l’abrasione del codice EAN e ironizza sul rapporto tra autore e circolazione delle proprie opere, sottolineando come “la vita dei letterati sia un file .txt”, dal titolo «Read me».
Anche Franchi si lascia leggere, ma con tutt’altro stile. E si racconta per episodi chiave che ne tratteggiano convinzioni e stati d’animo in tutti i toni possibili che la vita gli concede di sperimentare. È spassoso e brillante quando descrive la stasi del rapporto di coppia arrivato al capolinea, alla cosiddetta fase Dvd, “indice di un crollo verticale del desiderio e della fine della magia”. O quando difende le sue collezioni di calici e boccali indiscriminatamente fatti fuori da mani femminili, rivendicando il gusto kitsch di prediligere i mug, perché “detesta le tazzine (sembrandogli) palliativi per non ammettere che non si è capaci a bere”.
Ma non manca di diventare pungente specie nei confronti del sistema. Di quello Stato che l’autore non nasconde di voler uccidere. Il viaggio nelle anomalie della situazione occupazionale comincia con il servizio civile a Roma Tre. È in quest’occasione che il giovane Orsini, suo alter ego, “scopre le reali dinamiche delle assunzioni degli impiegati e degli assistenti, capisce l’imbecillità della propria generazione sulla base delle domande rivolte quotidianamente” e soprattutto impara che “quando un professore si chiude a chiave in ufficio non significa che si deve concentrare”.
Le speranze del giovane neolaureato ottimisticamente proteso verso il mondo del lavoro, vanno a sbriciolarsi contro il terribile muro della legge Biagi e la derivante “opportunità di essere legalmente schiavizzato gratis et amore e cum laude”.
Ne derivano una serie di esperienze dall’effetto devastante: inseritore notturno dai turni interminabili, a farsi braccio umano di uno scanner con il caffè come unico appiglio per resistere tutta la notte. Poi redattore polivalente e capace di trasformarsi in facchino e distributore all’occorrenza. Franchi denuncia le assurdità di una società che “riconosce più diritti e più tutele a chi presta sostegno nelle attività domestiche, negandone in toto ai precari, agli interinali, ai laureati che finiscono nei call center con l’obbligo di portare riconoscenza al padrone”.
E la collera monta al pari dell’indignazione. È un progressivo spogliarsi di beate illusioni e falsi miti. Welcome to the village, titola l’autore sarcasticamente. Benvenuto nel mondo del lavoro, settore stampa ed editoria nella fattispecie. Perché è da dentro che comprendi veramente certi meccanismi e ti rendi conto che “spesso s’occupano posti nel quarto potere non per talento o intelligenza o spirito critico, ma per la propria affidabilità, a prova di bomba. Sei affidabile quando sei ricattabile. (…) Quando sei l’espressione di qualcosa: di un partito di un potere economico, di un’industria, spesso di tutte e tre le cose assieme. E allora scrivi pubblicità, miracolose marchette”.
La critica non risparmia nessuno e la ferocia è proporzionale alla delusione di chi si accorge di aver creduto ad una marea di cazzate, trovandosi suo malgrado a dover, invece, riscontrare come “il mercato abbia comprato l’editoria, a tutti i livelli”.
Non c’è nulla che non sia in vendita e la possibilità di esprimersi è garantita unicamente dal denaro, le radio libere sono ormai solo un ricordo. La rivoluzione di Franchi, allora, sta nel web, nel farsi “stagista di sé stesso, tirocinante della letteratura italiana. Grande lavoratore. Gratis”, per sé e per i suoi amici. È questa la scintilla da cui nasce Lankelot.
Ma non è affatto semplice e le cose si complicano ancora quando ci si sposta sul terreno dei sentimenti. Quasi come se ci fosse una sotterranea rivalità tra amore e letteratura. Perché “l’amore è un atto impulsivo, creatività d’ossessi e diktat di carne che chiede: carne. La letteratura è nemica della carne, sa soltanto evocarla. Per evocare la carne devi essere dio. E devi conoscere la carne. Carne”.
L’autore torna dunque a sfidare a Dio, radicato a quella convinzione secondo cui “l’arroganza ti rende incolume, è sexy”. Vale con i bicchieri, forse. I suoi nervi, invece, vanno in frantumi. L’unica strada è alcolizzarsi, anestetizzarsi, stordirsi per riuscire a scrivere. Per rievocare le donne avute e perse, per sospendere il tempo e cristallizzarlo, conservando l’intensità di quei momenti che sono “ripari della sua anima, il suo bisogno di consolazione”.
Il solipsismo si lascia carezzare dalla voce di Jónsi, che consacra il ricordo di un amore giovane e perfetto e straniante, in una notte che non vuole finire e in cui l’unica appartenenza è quella dei loro corpi che non smettono di volersi, perché mai prima era stato così: sono un solo nome e un intervallo senza tempo, Due parentesi bianche.
Bianche come quella nebbia che avvolge i binari di oggi e di ieri. Sulla tastiera del cellulare manca lo zero, niente spazi, solo separazioni laceranti.
Si mescolano i ricordi di lui adulto che vive una storia a distanza, con quelli di lui bambino legati alla figura materna. E cresce il rimpianto di non essersi sradicato dal sole e dal vento, dai suoi libri e dal suo mondo, per coltivare quel noi che ha senso. “E non riesce a dire niente perché lui e sua madre se ne sono andati sul treno sbagliato e non hanno mai avuto il coraggio di restare”.
Franchi però non conosce solo le tinte del rimpianto e sa spendersi in pagine altre dalla nostalgia, in cui “l’amore è possesso e non può essere niente di diverso” e il sentimento principe è la gelosia, non solo nei confronti di chi guarda, ma addirittura verso il sole perché “l’abbronzatura demarca confini, stabilisce quel che è tuo da quel che tutti possono vedere. La linea dell’abbronzatura è la firma del sole sulla pelle della tua donna, la conferma di una promessa che è diventata un patto. Là quando la pelle torna bianca, sei mia e mia soltanto; là niente e nessuno può altro che immaginare e lasciarli immaginare è una punizione esemplare, e una ragione d’orgoglio”.
Gioca con le sue debolezze e con i suoi vizi, inverte gli effetti di acqua e birra, dialoga con la sua micia, si descrive come un Dinosauro Postmoderno, racconta dell’istrice signore di Calvi, la stessa dei prati de L’inadempienza e dissemina citazioni evidenti e nascoste, senza mai perdere in coerenza ed organicità. Piuttosto fornendo preziosi indizi che arricchiscono la lettura di suggestioni. In questo senso anche gli interludi si rivelano preziosi con accostamenti letterari e non, in una girandola di nomi all’interno della quale trova spazio persino Cuchulainn, mutuato dalla mitologia celtica. Appare, quindi, evidente come nessuna scelta sia casuale, tutto si incastra con studiata precisione nella struttura del libro e la copertina di Ceccato risulta perfettamente simmetrica senza sminuirsi a mera illustrazione. Tuttavia le ibridazioni più frequenti sono quelle a carattere musicale, costituendo ormai cifra stilistica di uno scrivere che si lascia contaminare dal rock. In quest’ottica non stupisce che Franchi dedichi un’intera sezione alla musica. Ai ricordi di quegli anni in cui ancora non c’erano youtube ed emule, quando “tutto era più difficile, poco accessibile, molto bello”. Siamo negli Ottanta ed è incredibile quanto sia cambiato tutto. Quanto ci si possa sentire distanti dai ragazzini di oggi che non hanno la minima cognizione di quei tempi meravigliosi in cui “l’Europa era un grande sogno. Non una moneta”. L’autore snocciola i suoi ricordi condividendo le emozioni dei grandi concerti e si interroga sulle proprie percezioni provando a distinguere tra rito ed evento. Racconta “dei colpi di culo, dei lampi di genio e delle coincidenze fortuite che gli hanno regalato Radiohead, Nirvana, Pearl Jem, Jeff Buckley e Sigur Ròs”, facendo della sua discoteca un paradiso per le anime rock. Quelle vere che hanno imparato presto come “le classifiche non significhino un cazzo” e vanno dietro ai dischi meno pubblicizzati, collezionando B-side. Perché “il lato b è uno stato mentale. È la voglia di andare oltre, di sapere qualcosa di diverso e di difficilmente comprensibile – meglio ancora: di meno accessibile. È desiderio di conoscere qualcos’altro di una realtà che ami, di guardarla nuda, di intossicarti di dettagli e sfumature, di possederla per intero”.
Lo sa bene chi ha interiorizzato a dovere la Teoria e tecnica della compilation, conscio che un nastro tdk “era una dichiarazione d’identità”. Che “dietro ogni cassetta c’era una storia (…) e una valanga di pensieri” e quindi ognuna di esse costituiva “un frammento musicale del tuo DNA, pericolosamente consegnato a chi poteva addirittura decifrarlo”.
Pertanto si avverte, netta, una certa nostalgia nei riguardi di quel mondo perduto in cui la musica non era ancora ossessivamente presente, quale “cicatrice della peste della nevrosi”, e si era ben lungi dal ridurla ad intervallo o sottofondo, svuotandola di valore.
Ne deriva l’invettiva contro l’ascolto coatto, cui Franchi oppone la strenua difesa dell’arte tutta, ritenuta “l’espressione della sensibilità, dell’intelligenza e della volontà generale”, così come scrive nel sesto articolo dei Diritti del Letterato, non prima di dedicarsi alla Magica, che costituisce oggetto della penultima sezione.
Qui siamo davanti a pagine leggere eppure sentimentali, perché “il calcio è uno scacciapensieri”, un antidoto contro la solitudine, l’alienazione e i nervi a pezzi. Ma è qualcosa che sa anche “raccontarti tanto delle persone, della società e del tuo tempo”. Sa diventare metafora della vita, perché “per ogni Totti ci sono legioni di Vanigli, a ricordarci che il genio offende la massa”. Allora la Roma, così come l’Arsenal per il citato Nick Hornby, incarna un sogno di riscatto, cui si legano gioie indelebili: lo scudetto conquistato all’ultima di campionato, da abbonato, dopo diciotto anni di attesa; i programmi di Michele Plastino; le giocate di classe del Principe e in special modo le domeniche vissute allo stadio “vicino a papà a guardare uno spettacolo, imparando e condividendo qualcosa, divertendosi ed emozionandosi, sognando ad occhi aperti”.
Gli stessi occhi che aspettano la frontiera, da dietro il finestrino della Panda che attraversava il confine facendo di lui “un bambino addestrato alla schizofrenia”, scisso tra Roma e Trieste, Italia ed Istria, “cresciuto tra offese e insulti a diverse etnie che tragicamente coincidevano col suo sangue. Gli affetti più cari erano nemici fra loro, e parlavano lingue e dialetti diversi”. Da qui allora, la dedica agli esuli istriani, da qui la somiglianza con Trieste, nonché la pluralità di chi si riconosce straniero e “sceglie come patria la Letteratura, perché è terra di menzogne e oasi di invenzioni e meraviglia, non ha pretese d’esser vera o realistica ad ogni costo, né d’essere Storia: è storia delle storie, è tante storie assieme. Come questo libro, che si fonda su migliaia di verità e di bugie, di ricordi e di congetture, di fotografie e di radiografie”.

 

 

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Gianfranco Franchi (Trieste, 1978), detto Lankelot, ha pubblicato in poesia: L’imperfezione – Opera III (2002) e Ombra della fontana. (2003; Kult, 2006), poi confluiti ne L’inadempienza (Il Foglio Letterario, 2008). In narrativa: Disorder (Il Foglio Letterario, 2006) e Pagano (Il Foglio Letterario, 2007). In saggistica, ha curato la plaquette Lettere alle tre amiche di Scipio Slataper (Alet, 2007).
È stato coordinatore di due riviste letterarie universitarie, Ouverture e Der Wunderwagen, tra 1997 e 2003. Dal 2003 è responsabile del portale indipendente di arti e scienze Lankelot.eu. Vive a Roma. Collabora con diverse testate, web o cartacee; lavora da consulente editoriale per la narrativa.
 
Gianfranco Franchi, “Monteverde”, Castelvecchi, Roma, 21 aprile 2009.

 

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