ALTRELETTERE

Pensiero


Quella striscia grigio ferro che scorreva poco lontano dai suoi occhi era la strada, quella strada che ricordava di aver percorso tempo addietro, tempo prima, ma quanto? Ma quando? Gli parve d’averla percorsa infinito tempo prima. Forse, addirittura, infinite vite fa. Eppure, ne era certo, era stato soltanto poco più di due anni prima. E si fermò a ripensare a quel tempo, anzi, al tempo, ed alla sua nozione. Cosa davvero conosceva di lui? Del tempo aveva fatto teoria, nel tempo addietro. E si guardò bene dal girargli attorno a quel paradosso apparente. Si ragiona del tempo quando il tempo inesorabilmente passa. E’ una forma liquida il tempo. Prende forma a seconda di come lo misuri, o lo comprimi. Ma se lo lasci libero, ed il tempo è libero sempre alla sua fine, dilaga in un margine infinito. Aveva ragionato del tempo, tempo addietro, e si era costruito un’immagine che si portava appresso. “Il tempo è l’unica variabile che muta mentre noi rimaniamo sempre gli stessi. Ed era questo restare immobili, alla fine, che uccideva le cose. La ricetta per battere il tempo, o solo per farselo amico, era “cambiare” che non voleva dire per forza far di ogni giorno una rivoluzione. No. Cambiare era non farsi sopraffare dalle abitudini. Lasciare il “solito posto” fosse pure il solito bar o la pizzeria, e cambiare luogo di incontro o di visione. Avere aria nuova attorno. Una nuova prospettiva. Un nuovo angolo di visione. Cambiare il più possibile anche nelle piccole cose era diventata allora la sua “mania” Cercar di comprendere altro che non fosse sé. Cercar di cogliere impressioni nuove o semplicemente rinnovare. Differenti. Come in quel viaggio dove la strada era apparentemente “solita” ma il paesaggio attorno mutava inevitabilmente, giorno dopo giorno, in ogni stagione. Ed il gioco era allora quello delle differenze nel tempo (ancora lui, ancora lì) e del cogliere (nel tempo) quel variar continuo in un tratto comune. E la strada era solita allora, ma bastava uscire di poco e cambiarla. Magari non nella sua direzione, che la meta è pur sempre una meta, ma nel suo svolgersi. Basta con quell’anonima striscia asfaltata e via per una via laterale che passa attraverso campi e paesi. Vita differente attorno ed anche vite. Altre, di altrui. Quante vite aveva allora incrociato? Quante ne aveva sfiorate, raccolto nel palmo di una mano, viste battere e volare via in un soffio? Aveva mille occhi attaccati alla pelle. E tutte le loro bocche socchiuse, curiose, avide, timide, sicure, incoscienti, distratte. Non ne avvertiva il peso dell’assenza. Sapeva di ognuna di loro il come ed il perché di quella loro assenza allora. S’era persuaso che di ognuna fosse mancata  il modo di cambiare. Hai voglia di dire “progetto”. La realtà è più difficile da mutare. I cambiamenti sia pur minimi spesso avvampano nel progettare ma sono difficili da attuare. “Più del primo passo sulla luna”, ma visto dalla parte dell’umanità. La strada poco sotto i suoi occhi scorreva via ancora sicura. S’insinuava dentro la roccia della montagna in un susseguirsi incessante di gallerie. Nell’intercalare di buio e luce offriva il netto contrasto delle viscere del monte e poi lo slargo azzurro aperto del mare. Terra di contrasti e quella la sua strada che la rappresentava come un’epigrafe. Il buio anche quello più intenso, capace di macchiare l’anima oltre che lo sguardo, s’interrompeva in modo improvviso, in uno scroscio di luce vivida. Accecante. Perché infondo anche la sua vita era stata così. Un alternarsi di lampi di luce e periodi nascosti. Come un gioco a rimpiattino fra la pianura ed il fitto del bosco. Erano gli anni trascorsi, andati, quelli che vedeva lì, ammassati al ciglio di quella strada che sfilavano come i paracarri, come i cartelli che segnavano la distanza dal punto di partenza. Erano gli anni ed il loro accadere, le contraddizioni apparenti, glie errori e poi i traguardi. Un tachimetro ne scandiva il passo. Il tempo il loro passare. E lui era lì che li guardava con gli occhi assorti in quel viaggio su quella strada che aveva già percorso due anni prima e che adesso ritornava ma che guardava con occhi nuovi, gli stessi di ogni nuovo viaggio. Con due dita abbassò lo specchietto al centro del parabrezza. Accostò l’auto fermandola in una piazzetta di sosta. Guardò i suoi occhi riflessi. Intravvide i riflessi del sottobosco che aveva visto tanto tempo fa. Erano quelli gli stessi occhi di quando aveva iniziato il viaggio? Quelli del primo passo  verso una qualche direzione? Com’era quella poesia che tanto, tanto tempo prima gli era piaciuta? “ma io non sono cambiato il cuore ed i pensieri son gli stessi” Erano davvero gli stessi il cuore ed i pensieri? Un altro cartello al ciglio della strada. Un paracarro forse. Il segno che altro tempo stava passando e che un attimo dopo sarebbe passato scavalcando nel presente quell’istante. Non cercò una risposta a quell’ultima domanda. Guardò i suoi occhi che lo guardavano dallo specchio e fece loro un mezzo sorriso. Aveva tempo davanti per darsi quelle risposte che da tanto tempo aspettava. E nel frattempo, comunque, nuovo tempo da vivere ed ancora strada da fare, una bocca per sorridere e degli occhi, dentro a suoi occhi, da poter guardare. Pensò alla massima di Giulio Cesare: “se non puoi battere i tuo nemico fattelo amico”. E continuò così quel giorno la sua strada con il tempo come amico, accanto. Fino al prossimo dubbio o incrocio o volo. Fino ad un attimo successivo che avrebbe chiamato poi “pensiero”.