ALTRELETTERE

Ad un tiro di rete


Era passato di lì ma era come se fosse fermo, allora. Come gli alberi, come un cestino della spazzatura, attaccato al suo palo era lì, come sul ciglio di una strada. Come passa il tempo, alle volte, a poterlo solamente guardare e non dico a vivere, no, ma certe volte nemmeno a respirare. Come passa il tempo a volte, come passa la banda nel giorno della festa, con tutti i tamburi e gli ottoni lucidi in vista. E lui era lì fermo, nell’attesa di un passaggio, o semplicemente di una mano o di una rete, o di una penna in vista, ed un pezzo di carta per poterla scrivere, o solamente ricordare. Era lì, in attesa di un passo che fosse solamente il primo, che accompagnasse qualcosa che lo potesse seguire. Era solo sopra il ciglio di passaggio, attaccato all’asfalto come una nuvola al cielo. Come un sorriso sopra la bocca di un bambino, come un pipistrello che si dondola dalla grondaia nella sera. Come il niente che si attacca al cuore quando il vento tace e scivola via l’amore come una barca di carta che hai chiamato nostalgia e che hai varato dentro ad un mattino di un milione di secoli fa. Come quella storia e poi quella che forse è stata dopo e l’una e l’altra si assomigliavano anche se erano diverse. Come i mille baci che si erano staccati dalle labbra come foglie che si lanciano nel turbinio d’autunno. Come tutte quelle promesse infrante e come tutte quelle cancellate che era come quando la voce dall’altoparlante lo diceva: “- l’aeroporto chiude”- ed ogni volo rimaneva un desiderio. Che lo diceva la pioggia e quel giorno quanta ne era caduta, tanta da aver inzuppato anche gli occhi che non volevano darsi per vinti al pianto ed allora quel rigar di guance era solo una nuvola e via…via lungo una corrente che diventa poi cascata, lungo un girar di anse che a volte sono spigoli contro cui inciampare con tutta una vita addosso. Dentro a quel rombar di grandine e lo scrosciar di un motore che par che passi accanto o forse solo poco lontano. Che par che passi e sgretoli col suo stridir di gomme ed un claxon molesto che forse abbaia come un cane dentro ad un fondo di notte. Come una cane che abbaia al cielo e dentro al cielo alle voci degli amanti, anime galeotte. Dentro a quel frastuono di mondo tutto dentro a quell’istante, scartò quell’attimo, come fosse una caramella, e lo portò alla bocca. Lo fermò fra i denti e poi lo lasciò scivolare sulla lingua e sotto il palato. Era quello il sapore del silenzio. Un sapore aspro, come di delusione, amaro di assenza e di rimpianto. Perché vanno via così i desideri ed i sogni, come quando ti ci provi e scopri che nonostante ogni tuo sforzo, la meta resta un’illusione. Forse davvero, a volte, occorrerebbe non avere mete o sogni. Forse nell’incertezza del risultato sarebbe meglio si restasse immobili.Se lo sentì montare dentro quel discorso, come il sole dietro il monte  all'orizzonte nell'alba di un mattino: "E tu che -come ti chiami?”-Tu che mi scivoli accanto e forse vorresti soltanto un solo un soffio di questa locomotiva ed un fischio perso in fondo al treno, forse vorresti solo le mie mani, o un ticchettio di parole vuote che si confondono dentro ad un tramonto, che si perdano sopra la strada come un po’ di pioggia, o come una nevicata." In quell’attimo preciso di silenzio sentì dal cuore riaffiorargli tracce di un vecchio discorso, relitti di parole che si lasciò portare dal vento di quell’istante “E tu, dimmi tu come ti chiami, tu con il tuo cuore di gomma e quell’altra con il suo ma di cartone, con l’anima diseguale che par che debordi ma è soltanto un margine sbagliato. Tu, tu come ti chiami? Qual è davvero il tuo nome ed il suo sfondo? Quello dove si raccoglie il sempre di tutto il tuo discorso, perché un discorso dovresti avercelo almeno, un discorso lungo più delle due solite parole che riecheggiano come un rantolo dentro le labbra di un moribondo, come l’eco che si sta smorzando, come qualcosa a cui non credi nemmeno tu mentre invece c’è chi ci crede da sempre. Tu che sai dir “ti amo” come fosse lo stampo che un bambino pigia senza sosta e senza un fine, sopra i fogli d’un blocco di appunti. Tu che non conservi nemmeno la copia dei tuoi sbagli e che il giorno dopo sono tutti passati, come dentro a un sogno, come una parentesi che non sai nemmeno se c’è stata e che sono soltanto attimi quelli che sono stati giorni, mesi e persino gli anni.” Questione di prospettive, a volte, o di battiti asincroni in quegli amori attraversati come voli di rondini in cielo nei giorni del primo migrare o di aironi che planano su quel velo d’acqua ferma. Giochi di prospettiva dove i giochi non tornano mai, come i giorni o il tempo che non conta se sia d’autunno o di primavera. Giochi, che si son fatti d’aria e poi di carne e d’anima spalmata contro un pezzo di muro, con la luce che s’è fatta fioca e la messa a fuoco incerta dell’obiettivo, come fossero una diapositiva od un filmato, ma in pellicola o in super8, con quelle righe sopra che san di tutto già vissuto e visto. Cose che san di tempo, come quello andato, come quello prossimo, il divenire che verrà, senza alcun rimpianto, senza un filo di rimorso. Con lo stupore solito di un bimbo che guarda il cielo e l’angolo, poco dietro, dove dietro c’è ancora una strada ed una vita da trovare.