QUER FATTACCIO

IL CINEMA E' MORTO?


NAZIONALE - 05 aprile 2015R2 CULT-CulturaQuel che resta del cinemaLa settima arte compie 120 anni e per celebrarla Parigi dedica una grande mostra al genio dei fratelli Lumière. Eppure mai come oggi la loro invenzione sembra avere un destino incertoEMILIANO MORREALESecondo alcuni critici è sul viale del tramonto, perché il rito della visione collettiva nel buio della sala ha perso potenza e interesse (soprattutto qui in Occidente)Ma per altri studiosi è ancora vitalissimo grazie alla capacità camaleontica di farsi più “piccolo” adattandosi a mezzi e fruizioni differentiCOS’È il cinema? Il cinema è morto? Sembrano frasi da dizionario dei luoghi comuni, o domande metafisiche senza risposta. Eppure in alcuni momenti sono inevitabili. Lo erano quando il cinema è nato, e gli spettatori si sono trovati davanti lo shock di questi fantasmi in movimento, più veri del vero, con il treno del Cinematografo Lumière che andava loro addosso. E lo sono di nuovo oggi, che ci chiediamo non solo cosa sia il cinema, ma dove sia, ora che ha compiuto 120 anni, come ricorda la mostra al Grand Palais di Parigi . Già lo schermo televisivo, e poi l’home video, hanno cambiato molte cose. Ma oggi è forte la tentazione di pensare che quello che gli spettatori vedono sia un’altra cosa, e non più il cinema . Il cinema era l’esperienza della sala e della folla. E oggi lo si vede dovunque, spesso da soli. Era un pezzo di pellicola. E oggi è digitale, cioè mera combinazione di numeri ( numérique, lo chiamano i francesi). Era «la lingua scritta della realtà», qualcosa che accadeva davvero davanti allo schermo. E oggi, con la CGI (computer generated imagery) tutto può accadere senza nessun bisogno di un mondo vero.È cambiato il modo di fare cinema, ovviamente. Anche gli autori mainstream inseguono, l’effetto, la meraviglia. Vuole stupire Iñarritu con il lungo finto piano sequenza di Birdman. Lo fa Linklater con il set lungo 12 anni di Boyhood. Ma il vero cambiamento riguarda lo spettatore, che un tempo era più o meno un signore seduto tra altri, al buio, aveva pagato un biglietto e guardava immagini in movimento. Invece la galleria degli spettatori di oggi è varia, è intenta a fruire e a fare cose diverse, secondo logiche sempre più simili a quelle della performance. Lo spettatore sceglie e viene informato in un certo modo, guarda a una certa velocità, per intero o a frammenti, o legando episodi di serie tv (a proposito: è cinema, quello?), scarica più o meno legalmente, fino alle modalità, in arrivo in Italia, di Netflix. Oppure si ritrova in sala per fruire eventi, opere liriche, visite a monumenti. O ancora vede film nei musei, rubricati come opere d’arte. Eppure, verrebbe da dire, vuole il cinema: se lo costruisce, reinventandosi un nuovo spazio.Iteorici cercano di raccontare questa mutazione, in maniera più o meno allarmata. Un pamphlet di Jacques Aumont si chiede, come in una canzone di Trenet, Que reste til du cinéma ? E un altro teorico francese, Raymond Bellour, ha definito la storia recente del cinema «una fine che non finisce mai di fi- nire». Il cinema per molti somiglia sempre più spesso a un fantasma, e le sue sale ai castelli in rovina. Le pellicole che riemergono dagli archivi sono sempre più affascinanti e paurose, come nel recente horror inglese The Canal di Ivan Kavanagh , in cui un archivista si trova tra le mani una misteriosa pellicola muta, che mostra le riprese di un crimine efferato di oltre cent’anni prima. Ma guarda meglio, e si accorge che il luogo dove è stato commesso il delitto è casa sua. Una metafora di quanto il cinema, e il suo fantasma, ci riguardino ancora.A mettere un po’ d’ordine in una situazione mobilissima, di immagini che partono e arrivano nel cinema, di dispositivi che cambiano di continuo, arriva l’ultimo volume del maggior teorico italiano di cinema, Francesco Casetti, docente a Yale: La galassia Lumière, sottotitolo Sette parole chiave per il cinema che viene (Bompiani, pagg. 464, euro 20) . Sette parole, che si ramificano in una sistematizzazione ambiziosa e per forza di cose provvisoria, mobile, escono dal cinema, e ci parlano del nostro quotidiano.Una parola è rilocazione, ossia la migrazione del cinema su altri supporti. Ma, ancora una volta, cosa migra qui? cos’è qui il cinema? Non un dispositivo, ma un’esperienza, che passa negli home theater o sugli smartphone. Qualcosa che dobbiamo credere sia cinema. Come un atto di fede, che si basa (ma per quanto ancora?) sulla memoria di una pratica sociale. Il cinema in questo modo diventa, in tanti schermi piccoli o grandi, reliquia e icona di un’esperienza perduta. Questo Cinema 2.0 va oltre i propri confini; non lo si va più a cercare, ma viene incontro allo spettatore, che magari può costruirsi una «bolla di cinema», come quando guarda i film in treno o in aereo. Il sito Allwomanstalk. com fa la classifica dei migliori posti in cui vedere un film: «al cinema» è al secondo posto, ma al primo c’è «a letto». Lo schermo stesso è sempre più un display, «in cui immagini che circolano nell’aria si arrestano per un momento, si mettono a disposizione di un utente, si prestano a essere manipolate. « I mille schermi che ci circondano oggi sono monitor, bacheche per istruzioni, album personali che consentono di fare della propria vita un bricolage (vedi facebook) . E con il touch screen, il tatto diventa anch’esso un prolungamento dell’occhio.Ma se la visione è sempre più solitaria, si cercano nuove forme di comunità di spettatori. Sul web si organizzano visioni collettive in cui tutti vedono lo stesso film, o film diversi, ma nello stesso momento, e si scambiano commenti in diretta sui social network. Si postano foto, frammenti, finti trailer, parodie, video-recensioni. I rischi speculari di questo oceano di immagini, ricorda il filosofo Jacques Rancière, sono quelli del narcisismo collettivo, e di un consenso globale. Eppure, la cara vecchia sala non è stata del tutto abbandonata, e anche Casetti ricorda che questo cinema rilocato può sentire, a un certo punto, il bisogno di tornare “a casa”. Forse basta solo guardarsi intorno. Negli ultimi anni, grazie a paesi come l’India o la Cina, nel mondo gli spettatori dei cinema aumentano. Il botteghino in Cina ha fatto registrare a febbraio incassi per 650 milioni di dollari, superando per la prima volta il boxoffice americano. E i tre maggiori incassi cinesi ( The Man from Macau I-I con Chow Yun-Fat, Dragon Blade con Jackie Chan e L’ultimo lupo di Jean-Jacques Annaud) non sono hollywoodiani.Per leggere questa realtà così complessa, bisogna procedere su un doppio binario, guardando al futuro e insieme, indietro nel tempo, ai primi teorici del cinema. Molte novità sconvolgenti del nostro tempo si rivelano infatti già intuite nei primi decenni del ‘900, come strade affascinanti o pericolose che il cinema avrebbe potuto o rischiato di prendere. Negli anni scorsi, tra gli altri, Miriam Hansen, e in Italia Gabriele Pedullà, hanno suggerito come il post-cinema o neocinema realizzi i sogni e gli incubi di teorici come Walter Benjamin, che parlava di visione distratta e di shock. E già i teorici delle origini prevedevano un cinema diffuso che avrebbe lasciato la sala. Laszlo Moholy Nagy sognava schermi semisferici (come quello dell’IMAX). Ejzenstein nel progetto della Corazzata Potemkin prevedeva che i marinai dovessero rompere lo schermo e invadere la sala. Dunque la storia del cinema si ripensa . Da alcuni anni si parla di Media Archeology, che studia la preistoria dei media e le loro evoluzioni ma anche i binari morti, le strade interrotte e sognate. Forse è vero che il cinema, in questo suo cambiar pelle, morire o rinascere, sta compiendo un proprio destino, e inverando speranze e incubi che lo abitavano dall’inizio.