QUER FATTACCIO

SUD. LA GRECIA D'EUROPA


Pil, lavoro, export, giustizia il Sud più lontano dall’EuropaLo leggo dopo Roberto Mania L’ Italia del Sud sta abbandonando l’Europa, come la Grecia. Non ha i debiti degli ellenici né ha truccato i conti, ma negli anni della doppia recessione ha allargato, come mai era accaduto prima, il suo divario dal resto del Continente, non solo dall’Italia centrosettentrionale. Forse in maniera irreversibile perché otto anni consecutivi di Pil negativo appaiono irrecuperabili, mentre l’altra parte del Paese, per quanto assai lentamente, sta uscendo dalla recessione agganciandosi al nord d’Europa, alla nuova catena del valore globale e alla domanda mondiale. Il lavoro al Sud si è disperso (nel 2013 per la prima volta dal 1977 l’occupazione nelle regioni del Mezzogiorno è scesa sotto la soglia dei sei milioni), procede la desertificazione industriale e si estende l’area della povertà. Il capitale umano si è indebolito. Ma c’è un dato dell’Istat che più di altri fa impressione, riguarda il 2065, ma non è così lontano come potrebbe apparire: dice che fra cinquant’anni il Sud d’Italia perderà 4,2 milioni di abitanti, mentre il resto del Paese ne guadagnerà 4,6 milioni. «Lo spopolamento del Sud – si legge nell’ultimo rapporto Svimez – riguarderà soprattutto i giovani, con una conseguente erosione della base della piramide dell’età, una sorta di rovesciamento rispetto a quella del Centro- Nord. A fine periodo, la popolazione meridionale, oggi pari al 34,3 per cento di quella nazionale, ridurrà complessivamente al 27,3 per cento». È un’area geografica che si sta svuotando, senza prospettiva. Non basta la ripartenza della Fiat di Melfi, in Lucania, per pensare che ora tutto lo scenario muterà. Serve molto di più. Dal punto di vista demografico il Nord si muove come la Germania, il Sud come la Spagna o la Grecia. Invecchia e si spegne. La nuova questione meridionale è anche questa ed è tra noi. Senza la ripresa del Sud l’Italia rimarrà zavorrata. E non è un caso che Prometeia abbia rivisto al ribasso le stime di crescita relative al 2016: +1,3 per cento anziché +1,6 per cento. Questi sono probabilmente i tassi di crescita a cui dovremo abituarci, con una dualismo nord-sud destinato a rafforzarsi. «No, non siamo la Grecia», sostiene Michele Emiliano, neo governatore della Puglia. «Basta guardare la nostra dotazione industriale: c’è la Bridgestone, la Bosch, la Magneti Marelli, l’Alenia. In Puglia si sta affermando un modello di sviluppo del tutto originale nel quale convivono la difesa della tradizione (penso ai nostri prodotti agricoli e al turismo) il rifiuto di grandi, devastanti, opere infrastrutturali (noi non vogliamo le strade grandi) e le industrie multinazionali ». Certo in Puglia, come in Campania e Sicilia (la Calabria dà segnali di scollamento molto profondi) ci sono distretti che provano a misurarsi con la competizione globale. È che le performance non sono positive. L’ultimo monitor del centro studi di IntesaSanpaolo non lascia dubbi per il 2014: «I distretti del Mezzogiorno hanno registrato una flessione delle vendite estere dell’1,3 per cento, in controtendenza rispetto a quanto riportato dai distretti appartenenti alle altre aree del Paese, che hanno chiuso il 2014 con una crescita delle esportazioni (+3,7 per cento)». In tutto questo la politica, del passato e del presente, non è senza colpe. Enzo Bianco, sindaco di Catania, dice che «il Sud è scomparso dal linguaggio della politica non solo dall’agenda della politica». Ricorda che il suo primo viaggio in treno fu nel 1954 un Catania-Torino. «Ci misi meno tempo di adesso, senza cambiare treno». Questo è il nuovo declino del Sud. Bianco propone un “patto” tra le città metropolitane e le Regioni del Mezzogiorno per puntare allo sviluppo dal basso, senza aspettare gli interventi da Roma. Certo fa pensare il fatto che le grandi Regioni del Sud sono governate dal cen-trosinistra, lo stesso che governa al centro, e mai come ora ci sia questa separatezza tra le diverse aree del Paese. È una questione di cacicchi, di centri di potere, ma forse anche di una sottovalutazione complessiva della centralità del Mezzogiorno nell’economia nazionale. Nel suo discorso di insediamento al Senato il 24 febbraio del 2014, condotto a braccio, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non fece alcun accenno al Mezzogiorno. Segno di discontinuità, forse. D’altra parte i richiami spesso ipocriti al Sud dei governi precedenti non hanno prodotto risultati di rilievo. Certo è che con la successiva legge di Stabilità il governo Renzi ha tagliato 3,5 miliardi di euro dal Piano d’azione coesione destinati agli investimenti nel Mezzogiorno. E senza investimenti si muore, non solo al Sud. Dal 2010 al 2012 la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno – come ha documentato l’economista Gianfranco Viesti dell’Università di Bari – è scesa di circa il 12 per cento l’anno. Non bastano i fondi strutturali comunitari sui quali ha scommesso tutto l’attuale governo. Quei fondi, al di là dei gravi ritardi con cui vengono utilizzati (Calabria, Campania e Sicilia sono in testa in questa classifica negativa) servono ad accompagnare e rafforzare politiche di investimenti pubblici. Ma questi ultimi dove sono? E non ci sono nemmeno gli investimenti privati perché anche i capitalisti (italiani o stranieri) se ne stanno andando dal Sud dove spesso nel passato si sono comportati come predatori, sfruttando i sussidi, gli sconti, le agevolazioni. «La flessione degli investimenti ha rappresentato il principale freno alla crescita in tutte le aree; essa è stata più marcata nel Mezzogiorno», si legge nelle “Economia regionali” da poco pubblicato dalla Banca d’Italia. E poi: «Il calo del 2014 sarebbe in gran parte attribuibile alle grandi imprese (500 addetti o più), che hanno ridotto gli investimenti in maniera più intensa nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord». Come la Grecia, anche il Sud d’Italia ha pagato gli anni delle politiche di austerity. «Ci sono due aspetti che vanno considerati», spiega Viesti. «Da una parte, il fatto che la seconda recessione, quella dal 2011, è stata tutta provocata dal crollo della domanda interna. Le imprese meridionali, meno orientate all’export, non sono state in grado di compensare il calo della domanda domestica spostandosi verso i mercati esteri. D’altra c’è lo strabismo territoriale delle politiche economiche. Che cosa è stato tagliato? Non tutta la spesa in misura uguale. Sono stati tagliati massicciamente gli investimenti che hanno maggiore impatto al Sud e non sono state tagliate alcune voci del welfare state, dalle pensioni alla cassa integrazione, che hanno un maggior impatto nelle regioni settentrionali. E poi i poteri locali, come dimostra la Corte dei conti, hanno aumentato le tasse più al Sud per compensare la riduzione dei trasferimenti. Questo per dire che le politiche economiche concorrono, almeno quanto le strutture economiche, ad allargare il divario tra le due aree del Paese». Non c’è settore in cui il divario non sia accresciuto e tutto ha a che fare con l’economia. Si comincia dai banchi di scuola. Anche l’ultimo test sugli Invalsi conferma le differenze: nella scuola primaria il divario nord/sud quasi non c’è, poi le distanze emergono a partire dalle scuole medie. E i divari – ha scritto Paolo Sestito nel suo recente libro “La scuola imperfetta” (il Mulino) - «si allargano al procedere del percorso di studi: le differenze già esistenti all’avvio del percorso scolastico, legate anche al più basso titolo di studio dei genitori nelle regioni meridionali, si ampliano, infatti, man mano che si avanza lungo il percorso degli studi, senza che la scuola riesca a contrastarle più di tanto ». Dunque un Paese che non offre nemmeno più la mobilità sociale (non solo territoriale) che accompagnò la crescita negli anni Sessanta. Se nasci nel Mezzogiorno, soprattutto in un piccolo centro, sei già svantaggiato. Ora anche gli operai specializzati cominciano a mancare. Non c’è un dato statistico aggregato favorevole al Mezzogiorno. Al Centro nord i consumi delle famiglie sono stati l’unica componente della domanda interna che ha segnato un incremento, mentre nel Mezzogiorno sono calati. Da due anni l’export delle imprese meridionali perde colpi mentre ha sostenuto la ripresa del Nord. Il divario nel tasso di occupazione con il Centro Nord è arrivato a 21,5 punti, era il 20,9 per cento nel 2013. Dal 2010 il divario tra il tasso di disoccupazione del Mezzogiorno e quello del Centro Nord è tornato ad ampliarsi portandosi nel 2014 a circa 11 punti percentuali, il valore più elevato dell’ultimo decennio. I tempi della giustizia civile (fattore non secondario nell’attrazione degli investimenti) sono doppi nelle regioni meridionali rispetto al resto del Paese. L’efficacia della pubblica amministrazione è notoriamente bassa. E su tutto pesa il potere diffuso, soprattutto in alcune aree della Campania, della Calabria e della Sicilia, delle organizzazioni criminali. Ma quando a Matera, capitale europea della cultura nel 2019, non c’è la stazione dei treni si capisce che le colpe dell’allontanamento del Sud sono di tanti e distribuite nei decenni. La Grecia sta per essere salvata da un’Europa molto sgangherata. Chi salverà il Mezzogiorno d’Italia?