24 luglio 2015
QUER FATTACCIO
blog di politica, notizie curiose, amenità varie in ordine più o meno sparso, così come mi vengono nello Zibaldone della mia mente...
Creato da Quer_fattaccio il 03/02/2010Area personale
- Login
Cerca in questo Blog
Menu
Citazioni nei Blog Amici: 1
Ultimi commenti
Chi può scrivere sul blog
Solo l'autore può pubblicare messaggi e commenti in questo Blog.
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
Post n°553 pubblicato il 25 Agosto 2015 da Quer_fattaccio
Pil, lavoro, export, giustizia il Sud più lontano dall’Europa
Roberto Mania L’ Italia del Sud sta abbandonando l’Europa, come la Grecia. Non ha i debiti degli ellenici né ha truccato i conti, ma negli anni della doppia recessione ha allargato, come mai era accaduto prima, il suo divario dal resto del Continente, non solo dall’Italia centrosettentrionale. Forse in maniera irreversibile perché otto anni consecutivi di Pil negativo appaiono irrecuperabili, mentre l’altra parte del Paese, per quanto assai lentamente, sta uscendo dalla recessione agganciandosi al nord d’Europa, alla nuova catena del valore globale e alla domanda mondiale. Il lavoro al Sud si è disperso (nel 2013 per la prima volta dal 1977 l’occupazione nelle regioni del Mezzogiorno è scesa sotto la soglia dei sei milioni), procede la desertificazione industriale e si estende l’area della povertà. Il capitale umano si è indebolito. Ma c’è un dato dell’Istat che più di altri fa impressione, riguarda il 2065, ma non è così lontano come potrebbe apparire: dice che fra cinquant’anni il Sud d’Italia perderà 4,2 milioni di abitanti, mentre il resto del Paese ne guadagnerà 4,6 milioni. «Lo spopolamento del Sud – si legge nell’ultimo rapporto Svimez – riguarderà soprattutto i giovani, con una conseguente erosione della base della piramide dell’età, una sorta di rovesciamento rispetto a quella del Centro- Nord. A fine periodo, la popolazione meridionale, oggi pari al 34,3 per cento di quella nazionale, ridurrà complessivamente al 27,3 per cento». È un’area geografica che si sta svuotando, senza prospettiva. Non basta la ripartenza della Fiat di Melfi, in Lucania, per pensare che ora tutto lo scenario muterà. Serve molto di più. Dal punto di vista demografico il Nord si muove come la Germania, il Sud come la Spagna o la Grecia. Invecchia e si spegne. La nuova questione meridionale è anche questa ed è tra noi. Senza la ripresa del Sud l’Italia rimarrà zavorrata. E non è un caso che Prometeia abbia rivisto al ribasso le stime di crescita relative al 2016: +1,3 per cento anziché +1,6 per cento. Questi sono probabilmente i tassi di crescita a cui dovremo abituarci, con una dualismo nord-sud destinato a rafforzarsi. «No, non siamo la Grecia», sostiene Michele Emiliano, neo governatore della Puglia. «Basta guardare la nostra dotazione industriale: c’è la Bridgestone, la Bosch, la Magneti Marelli, l’Alenia. In Puglia si sta affermando un modello di sviluppo del tutto originale nel quale convivono la difesa della tradizione (penso ai nostri prodotti agricoli e al turismo) il rifiuto di grandi, devastanti, opere infrastrutturali (noi non vogliamo le strade grandi) e le industrie multinazionali ». Certo in Puglia, come in Campania e Sicilia (la Calabria dà segnali di scollamento molto profondi) ci sono distretti che provano a misurarsi con la competizione globale. È che le performance non sono positive. L’ultimo monitor del centro studi di IntesaSanpaolo non lascia dubbi per il 2014: «I distretti del Mezzogiorno hanno registrato una flessione delle vendite estere dell’1,3 per cento, in controtendenza rispetto a quanto riportato dai distretti appartenenti alle altre aree del Paese, che hanno chiuso il 2014 con una crescita delle esportazioni (+3,7 per cento)». In tutto questo la politica, del passato e del presente, non è senza colpe. Enzo Bianco, sindaco di Catania, dice che «il Sud è scomparso dal linguaggio della politica non solo dall’agenda della politica». Ricorda che il suo primo viaggio in treno fu nel 1954 un Catania-Torino. «Ci misi meno tempo di adesso, senza cambiare treno». Questo è il nuovo declino del Sud. Bianco propone un “patto” tra le città metropolitane e le Regioni del Mezzogiorno per puntare allo sviluppo dal basso, senza aspettare gli interventi da Roma. Certo fa pensare il fatto che le grandi Regioni del Sud sono governate dal cen-trosinistra, lo stesso che governa al centro, e mai come ora ci sia questa separatezza tra le diverse aree del Paese. È una questione di cacicchi, di centri di potere, ma forse anche di una sottovalutazione complessiva della centralità del Mezzogiorno nell’economia nazionale. Nel suo discorso di insediamento al Senato il 24 febbraio del 2014, condotto a braccio, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non fece alcun accenno al Mezzogiorno. Segno di discontinuità, forse. D’altra parte i richiami spesso ipocriti al Sud dei governi precedenti non hanno prodotto risultati di rilievo. Certo è che con la successiva legge di Stabilità il governo Renzi ha tagliato 3,5 miliardi di euro dal Piano d’azione coesione destinati agli investimenti nel Mezzogiorno. E senza investimenti si muore, non solo al Sud. Dal 2010 al 2012 la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno – come ha documentato l’economista Gianfranco Viesti dell’Università di Bari – è scesa di circa il 12 per cento l’anno. Non bastano i fondi strutturali comunitari sui quali ha scommesso tutto l’attuale governo. Quei fondi, al di là dei gravi ritardi con cui vengono utilizzati (Calabria, Campania e Sicilia sono in testa in questa classifica negativa) servono ad accompagnare e rafforzare politiche di investimenti pubblici. Ma questi ultimi dove sono? E non ci sono nemmeno gli investimenti privati perché anche i capitalisti (italiani o stranieri) se ne stanno andando dal Sud dove spesso nel passato si sono comportati come predatori, sfruttando i sussidi, gli sconti, le agevolazioni. «La flessione degli investimenti ha rappresentato il principale freno alla crescita in tutte le aree; essa è stata più marcata nel Mezzogiorno», si legge nelle “Economia regionali” da poco pubblicato dalla Banca d’Italia. E poi: «Il calo del 2014 sarebbe in gran parte attribuibile alle grandi imprese (500 addetti o più), che hanno ridotto gli investimenti in maniera più intensa nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord». Come la Grecia, anche il Sud d’Italia ha pagato gli anni delle politiche di austerity. «Ci sono due aspetti che vanno considerati», spiega Viesti. «Da una parte, il fatto che la seconda recessione, quella dal 2011, è stata tutta provocata dal crollo della domanda interna. Le imprese meridionali, meno orientate all’export, non sono state in grado di compensare il calo della domanda domestica spostandosi verso i mercati esteri. D’altra c’è lo strabismo territoriale delle politiche economiche. Che cosa è stato tagliato? Non tutta la spesa in misura uguale. Sono stati tagliati massicciamente gli investimenti che hanno maggiore impatto al Sud e non sono state tagliate alcune voci del welfare state, dalle pensioni alla cassa integrazione, che hanno un maggior impatto nelle regioni settentrionali. E poi i poteri locali, come dimostra la Corte dei conti, hanno aumentato le tasse più al Sud per compensare la riduzione dei trasferimenti. Questo per dire che le politiche economiche concorrono, almeno quanto le strutture economiche, ad allargare il divario tra le due aree del Paese». Non c’è settore in cui il divario non sia accresciuto e tutto ha a che fare con l’economia. Si comincia dai banchi di scuola. Anche l’ultimo test sugli Invalsi conferma le differenze: nella scuola primaria il divario nord/sud quasi non c’è, poi le distanze emergono a partire dalle scuole medie. E i divari – ha scritto Paolo Sestito nel suo recente libro “La scuola imperfetta” (il Mulino) - «si allargano al procedere del percorso di studi: le differenze già esistenti all’avvio del percorso scolastico, legate anche al più basso titolo di studio dei genitori nelle regioni meridionali, si ampliano, infatti, man mano che si avanza lungo il percorso degli studi, senza che la scuola riesca a contrastarle più di tanto ». Dunque un Paese che non offre nemmeno più la mobilità sociale (non solo territoriale) che accompagnò la crescita negli anni Sessanta. Se nasci nel Mezzogiorno, soprattutto in un piccolo centro, sei già svantaggiato. Ora anche gli operai specializzati cominciano a mancare. Non c’è un dato statistico aggregato favorevole al Mezzogiorno. Al Centro nord i consumi delle famiglie sono stati l’unica componente della domanda interna che ha segnato un incremento, mentre nel Mezzogiorno sono calati. Da due anni l’export delle imprese meridionali perde colpi mentre ha sostenuto la ripresa del Nord. Il divario nel tasso di occupazione con il Centro Nord è arrivato a 21,5 punti, era il 20,9 per cento nel 2013. Dal 2010 il divario tra il tasso di disoccupazione del Mezzogiorno e quello del Centro Nord è tornato ad ampliarsi portandosi nel 2014 a circa 11 punti percentuali, il valore più elevato dell’ultimo decennio. I tempi della giustizia civile (fattore non secondario nell’attrazione degli investimenti) sono doppi nelle regioni meridionali rispetto al resto del Paese. L’efficacia della pubblica amministrazione è notoriamente bassa. E su tutto pesa il potere diffuso, soprattutto in alcune aree della Campania, della Calabria e della Sicilia, delle organizzazioni criminali. Ma quando a Matera, capitale europea della cultura nel 2019, non c’è la stazione dei treni si capisce che le colpe dell’allontanamento del Sud sono di tanti e distribuite nei decenni. La Grecia sta per essere salvata da un’Europa molto sgangherata. Chi salverà il Mezzogiorno d’Italia? |
Post n°552 pubblicato il 24 Luglio 2015 da Quer_fattaccio
La Consulta scoperchia il buco di Cota in Regione Sentenza dichiara incostituzionale una parte del bilancio approvato nel 2013. In ballo 2,5 miliardi. Il rischio di default tecnico per il Piemonte si riaffaccia
Cota e Chiamparino Il buco su cui Cota aveva cucito sopra una toppa è stato riaperto ieri dalla Corte Costituzionale: tutta una parte del bilancio della Regione del 2013 è stato dichiarato "incostituzionale ". Chiamparino si trova adesso a dover affrontare un disavanzo di 2 miliardi e mezzo. Un cifra monstre. Soprattutto se sommata agli 1,264 miliardi di disavanzo accertato sin d'ora. "Sarebbe il default totale - mette in chiaro il vicepresidente Aldo Reschigna - se non fosse che siamo già in presenza di una gestione commissariale straordinaria, che il governo ha affidato allo stesso Chiamparino ". I giudici costituzionali erano stati chiamati in causa dalla Corte dei Conti, secondo la quale l'operazione con cui la giunta Cota aveva "anticipato" i debiti pregressi nei confronti di Asl e fornitori non era legittima, perché in realtà non faceva altro che creare nuovi debiti, nascondendo sotto il tappeto il disavanzo. Con la sentenza pubblicata la Consulta ha sciolto ogni dubbio: quelle somme hanno "finanziato delle spese non previste in bilancio ampliando la capacità di spesa della Regione". Di conseguenza, scrivono i giudici, si è "alterato l'equilibrio di bilancio ". In piazza Castello vince il dubbio: "Leggeremo la sentenza con attenzione per cercare di capire come affrontare la situazione ". Reschigna conta di superare quel che dal punto di vista formale appare come il default definitivo della Regione con la prosecuzione dell'azione del Commissario straordinario e spalmando su un trentennio tutto il disavanzo. "Questo dovrebbe consentire - sottolinea il vicepresidente - di neutralizzare anche l'esito della sentenza" |
Post n°551 pubblicato il 13 Luglio 2015 da Quer_fattaccio
La vera tragedia europea è la Germaniadi MAURIZIO RICCI Una grande multinazionale straniera sta facendo firmare, in questi giorni, ai suoi fornitori italiani, contratti che contemplano la procedura da seguire in caso di uscita dall'euro e ritorno alla lira. E' il risultato – gravissimo – del modo irresponsabile con cui è stata gestita la crisi greca. Il contagio è già avvenuto. Il "salveremo l'euro a qualsiasi costo" di Draghi è sepolto. Nella testa della gente e dei mercati, l'euro è diventato reversibile. Lo pagheremo in termini di spread e di speculazione. Se non oggi, domani, alla prossima crisi. E il dubbio è che questo sia stato lo scopo deliberato di chi ha messo in piedi, in queste ore, a Bruxelles, una rappresentazione ad uso e consumo di un pubblico (quello tedesco) precedentemente addestrato ad una visione unilaterale e faziosa della realtà. Sangue e torture a parte, non era diversa la logica dei processi dell'Inquisizione spagnola. inevitabilmente disattesi, l'austerità verrà rinforzata e la spirale perversa, già vista all'opera in questi anni, potrà dare un altro giro, sempre perchè la priorità sarebbe mettere da parte i soldi per restituire i debiti. Restituzione che resta problematica esattamente come prima. Ma, poiché tagliare i debiti inesigibili resta un'eresia, pur di non ridurre la montagna del debito preesistente si preferisce aumentarla ulteriormente di un'altra ottantina di miliardi, così da trasformare la piaga in cancrena.
(13 luglio 2015)
|
Post n°550 pubblicato il 08 Luglio 2015 da Quer_fattaccio
COMMENTI UNA VIA DI FUGA PER LA GRECIA PAUL KRUGMAN L’EUROPA, domenica scorsa, ha schivato una pallottola. Smentendo molte previsioni, gli elettori greci hanno sostenuto con forza il rigetto delle richieste dei creditori da parte del loro governo. E anche i più ardenti sostenitori dell’Unione europea dovrebbero tirare un sospiro di sollievo. Ovviamente non è così che i creditori vorrebbero farvi vedere la faccenda. La loro interpretazione, riecheggiata da tanti sulla stampa internazionale, è che l’insuccesso del tentativo di intimidire la Grecia per spingerla ad accondiscendere alle loro richieste è stato il trionfo dell’irrazionalità e dell’irresponsabilità contro i saggi consigli dei tecnocrati. Ma la campagna di intimidazione, il tentativo di terrorizzare i greci tagliando i finanziamenti alle banche e minacciando il caos generalizzato, tutto con l’obiettivo quasi dichiarato di far cadere l’attuale governo di sinistra, è stato un episodio ignominioso in un’Europa che sostiene di credere nei principi della democrazia: se la campagna avesse avuto successo avrebbe stabilito un precedente terribile, anche se i creditori avessero avuto ragione. Ma quel che è peggio è che non avevano ragione. La verità è che i cosiddetti (cosiddetti da loro stessi) esperti europei sono come i dottori medievali che insistevano a salassare i loro pazienti, e quando la cura li faceva ammalare ancora di più prescrivevano altri salassi ancora. Un “sì” nel referendum di domenica avrebbe condannato i greci ad altri anni di sofferenze, sotto il peso di politiche che non hanno funzionato e che in realtà, per semplice aritmetica, non possono funzionare: l’austerità verosimilmente fa contrarre l’economia più in fretta di quanto non riduca il debito, e tutte le sofferenze finiscono per non servire a nulla. La schiacciante vittoria del “no” offre almeno una chance per sfuggire a questa trappola. Ma come può essere gestita questa chance? Esiste un modo per manterene la Grecia nell’euro? E, in generale, è auspicabile che la Grecia rimanga nell’euro? L’interrogativo più immediato riguarda le banche greche. Nei giorni prima del referendum, la Banca centrale europea ha tagliato l’accesso ai fondi addizionali per gli istituti di credito ellenici, contribuendo a far precipitare il panico e costringendo il governo a imporre la chiusura delle banche e i controlli di capitale. L’Eurotower ora si trova di fronte a una scelta imbarazzante: se ripristinerà i normali finanziamenti sarà come se riconoscesse che il precedente congelamento era motivato da ragioni politiche, ma se non lo farà di fatto costringerà la Grecia a introdurre una nuova moneta. Per scendere nello specifico, se da Francoforte non comincerà ad affluire denaro, la Grecia non avrà altra scelta che cominciare a pagare salari e pensioni con “pagherò” che, nella pratica, costituiranno una moneta parallela e che nel giro di non molto potrebbero trasformarsi nella nuova dracma. Supponiamo, per altro verso, che la Banca centrale europea ripristini i normali prestiti e che la crisi bancaria si attenui. Resterebbe comunque aperto il problema di come far ripartire la crescita economica. Nei negoziati infruttuosi che hanno portato al referendum di domenica, l’intoppo principale era rappresentato dalla richiesta greca di un alleggerimento permanente del debito, per rimuovere la nube che pesa sulla sua economia. La Troika — le istituzioni che rappresentano gli interessi dei creditori — ha rifiutato, anche se ora sappiamo che uno dei membri della suddetta, il Fondo monetario internazionale, è giunto per conto proprio alla conclusione che il debito della Grecia non può essere ripagato. Riprenderanno in considerazione la questione, ora che il loro tentativo di spodestare la coalizione di sinistra al potere ad Atene è fallito? Non ne ho idea: e in ogni caso ora si può sostenere con valide ragioni che l’uscita della Grecia dall’euro sia la migliore fra le cattive opzioni disponibili. Immaginiamo, per un istante, che la Grecia non abbia mai adottato l’euro, limitandosi a fissare il valore della dracma contro la moneta unica. Cosa dovrebbe fare a questo punto, secondo un’analisi economica elementare? La risposta, a schiacciante maggioranza, sarebbe che dovrebbe svalutare, lasciar scendere il valore della dracma per incoraggiare le esportazioni e spezzare la spirale della deflazione. Ovviamente la Grecia non ha più una valuta propria, e molti analisti sostenevano che l’adozione dell’euro era una decisione irreversibile, perché qualsiasi accenno di un’uscita dalla moneta unica avrebbe scatenato devastanti assalti agli sportelli e una crisi finanziaria. Ma a questo punto la crisi finanziaria è già avvenuta, e dunque il costo maggiore di un’uscita dall’euro è stato pagato: e allora perché non andarsi a cercare i benefici? L’uscita della Grecia funzionerebbe bene come l’efficacissima svalutazione islandese del 2008-2009 o come l’abbandono della parità peso- dollaro da parte dell’Argentina nel 2001-2002? Probabilmente no, ma considerate le alternative: se la Grecia non otterrà un alleggerimento del debito importante, e forse neanche in quel caso, lasciare l’euro rappresenta l’unica via di fuga plausibile dal suo incubo economico senza fine. E diciamo le cose come stanno: se Atene finirà per lasciare l’euro, non vorrà dire che i greci sono cattivi europei. Il problema del debito in Grecia è nato perché qualcuno ha prestato soldi ai greci in modo irresponsabile, non solo perché i greci hanno chiesto soldi in prestito in modo irresponsabile. E in ogni caso i greci hanno scontato i peccati del loro governo già molto più del dovuto. Se non riescono a mettere a frutto la moneta unica, è perché la moneta unica non dà respiro ai Paesi in difficoltà. La cosa importante, ora, è fare tutto il possibile per mettere fine al salasso. (Traduzione di Fabio Galimberti) © 2015 New York Times News Service ©RIPRODUZIONE RISERVATA
|
Post n°549 pubblicato il 29 Giugno 2015 da Quer_fattaccio
di BARBARA SPINELLI e ÉTIENNE BALIBAR CARO direttore, chiediamo ai tre creditori della Grecia (Commissione, Banca centrale europea, Fondo Monetario internazionale) se sanno quello che fanno, quando applicano alla Grecia un'ennesima terapia dell'austerità e giudicano irricevibile ogni controproposta proveniente da Atene. Se sanno che la Grecia già dal 2009 è sottoposta a un accanimento terapeutico che ha ridotto i suoi salari del 37%, le pensioni in molti casi del 48%, il numero degli impiegati statali del 30%, la spesa per i consumi del 33%, il reddito complessivo del 27%, mentre la disoccupazione è salita al 27% e il debito pubblico al 180% del Pil. europeo alle radici. Non può calpestare la volontà democratica espressa dai cittadini sovrani in regolari elezioni, umiliando un paese membro in difficoltà e giocando con il suo futuro. La resistenza del governo Tsipras alle nuove misure di austerità - unitamente alla proposta di indire su di esse un referendum nazionale - è la risposta al colpo di Stato postmoderno che le istituzioni europee e il Fondo Monetario stanno sperimentando oggi nei confronti della Grecia, domani verso altri Paesi membri. |
Inviato da: M.Zambonin
il 04/04/2012 alle 23:37
Inviato da: grandig0
il 04/04/2012 alle 22:08
Inviato da: ormalibera
il 04/04/2012 alle 18:32
Inviato da: piuerone
il 04/04/2012 alle 17:03
Inviato da: UnitiPerILBeneComune
il 04/04/2012 alle 08:47