Makron Blog

Post N° 420


Le luci si sono accese, la strumentazione illuminata. E tutti i discorsi di parenti e amici, sulla pericolosità delle due ruote, la disattenzione degli altri e tutti i pericoli che la strada può riservare sono stati, almeno in quel momento, dimenticati completamente. In quel momento c’eravamo solo io e lei. Io e la mia moto. L’aria che scivola tra le dita, che scorre sul cupolino e poi oltrepassa il casco. Un susseguirsi di emozioni e sensazioni di libertà che solo la moto ti sa dare. E ogni giorno che passava, ogni nuovo “giro” sulla moto mi facevano lentamente dimenticare tutte le raccomandazioni che mi venivano puntualmente fatte. Mi sentivo invincibile. Poi sono arrivati i primi acquisti “seri”, quelli che ti vengono utili alle velocità un po’ più sostenute. Giubbini con protezioni dovunque, la visiera scura per le giornate di sole, guanti con le protezioni maggiorate per le dita e nocche, stivaletti per una migliore sensibilità sulle pedane e sul freno posteriore. Ed ecco che quelle raccomandazioni si sono fatte sempre più lontane, quasi non ci pensavo più. O meglio ci pensavo, ma mi dicevo: “Qualche protezione in più ce l’ho. Se cado sono protetto. Tanto non vado forte”. Tutto era meraviglioso, tutto era perfetto. Nulla poteva rovinare quelle giornate di sole che sembravano uscite apposta per farmi fare un giro in moto. Nulla di così complicato, solo un piccolo giretto in moto vicino casa. Cosa mi sarebbe potuto succedere? Parto, sono tranquillo. Tranquillissimo. Non penso a nulla se non alla strada. Proseguo nel mio giro, sempre più tranquillo. La strada che percorro è dritta per qualche chilometro. Anche lei quel giorno è un paradiso: solo sporadicamente sopraggiunge qualche auto. Ci sono degli incroci, di tanto in tanto, ma null’altro disturba. Vedo, in prossimità di uno di questi incroci, una macchina ferma e fumante contro uno di quei paletti che sostengono le indicazioni stradali. Accosto. La macchina davanti è semidistrutta, deve essere stata una bella botta. Mi sembra strano però che un paletto abbia potuto ridurla così. Alzo lo sguardo. Vedo un gruppetto di moto ferme a bordo strada. E in mezzo, ancora più avanti, pezzi di lamiera sparsi ovunque. Riconosco una parte: è lo scarico di una Yamaha. Avverto un senso di pesantezza al petto, come se un mattone me lo stesse opprimendo. Mi slaccio il casco. Ho il respiro pesante, come se avessi appena finito una corsa. Mi avvicino agli altri motociclisti a passo svelto. Voglio vedere come sta l’amico caduto. Nella testa un pensiero: “Dai, adesso vado là e lo trovo seduto sul ciglio della strada. Magari qualche osso rotto, ma cosciente. Vedrai che sarà così”. Avvicinandomi sempre di più al gruppetto, vedo altre parti della moto: il copri-serbatoio, la leva del freno… Mi giro. In mezzo al campo che costeggia la strada vedo fumare qualcosa. Cerco di capire cos’è: riconosco la ruota posteriore, ancora attaccata al blocco motore fumante. O meglio, a quel che resta del blocco motore. Mi sento morire. Ho paura. Ho paura di vedere il motociclista sdraiato per terra, privo di sensi, contratto in una posizione innaturale. Ho paura di vedere dal casco gli occhi chiusi, col viso rigato da qualche rigagnolo di sangue dovuto a qualche ferita. Il cuore batte all’impazzata, quel mattone che ho sul petto è sempre più pesante. Rigiro lo sguardo verso il gruppo. Qualcuno parla al telefonino, credo con i soccorsi. Aumento ancora il passo. Sono vicino ormai, ma non riesco a distinguere chiaramente le voci, sono confuse. Qualcuno ha la maglietta sporca di sangue, qualcuno qualche vistosa ferita che si tampona con qualche garza tirata fuori dal kit di soccorso di qualcuno che sta facendo prima assistenza. Sono quelli che erano sulla macchina. Loro sono coscienti per fortuna. Ma il conducente della moto? Lui come sta? Mi avvicino, con la speranza che la mia presenza possa essere di qualche aiuto. Vedo il motociclista: è sul bordo della strada, ha indosso la tuta e il casco. La visiera, nell’urto, si deve essere però staccata. Vedo il suo viso, quella piccola parte che il casco lascia intravedere. Gli occhi sono sbarrati, il sangue è dovunque. Ho una tremenda voglia di piangere. Non conosco la dinamica dell’incidente, non so chi sia il povero ragazzo che giace esanime sull’asfalto. Ma ho una tristezza incredibile nel cuore. Nel frattempo, tutto si fa più lento: i gesti delle persone lì intorno, le macchine che di tanto in tanto sopraggiungono senza fermarsi sembrano andare al rallentatore. Anche i miei pensieri sono al rallentatore. Uno dei ragazzi di quel gruppetto di motociclisti mi si avvicina. Non conosco nemmeno lui, non l’ho mai visto prima, non so cosa voglia dirmi. Quel peso che ho sul petto diventa sempre più pesante, mi sembra insostenibile. Il centauro mi è ormai di fronte, a pochi centimetri. Non dimenticherò mai le parole che mi disse con un filo di voce, quasi con un sussurro: “E’ stato un attimo…” Senza aggiungere altro, si allontana, raggiungendo l’autoambulanza che nel frattempo è arrivata. La vita è fatta di centinaia di migliaia di attimi, penso. Ma in quell’attimo i sogni di quel ragazzo si sono fermati. E' bastato quell'attimo e quei sogni sono stati portati via in un’ambulanza che non accende le sirene. Ormai non c’è più nulla da fare. Non posso non pensare alle sue parole. Perché quel ragazzo sdraiato, privo di vita su quell’asfalto duro, ruvido e insanguinato potevo essere io. Probabilmente anche quel ragazzo, poco prima dell’incidente, stava assaporando il gusto della vita, quella sensazione di libertà e di invincibilità che tutti, a cavallo della nostra moto, abbiamo provato. Questa esperienza mi ha segnato profondamente. Non so se vivrò ancora la moto come la vivevo prima. Ma mi ha fatto riflettere, forse davvero per la prima volta, sulle raccomandazioni di amici e parenti che, giro dopo giro, avevo dimenticato.