Oltre Santiago

Qualche spiegazione


Innanzitutto, come ho scoperto il Cammino. Una domanda che mi fece una persona che avevo conosciuto casualmente al telefono: <<A cosa pensi se ti dico Santiago?>>. D’istinto risposi: <<Penso a Hemingway, penso al pescatore de "Il vecchio e il mare", si chiamava Santiago quell’uomo…>>. <<Io dicevo un’altra cosa - mi disse lei - io parlavo del Cammino di Santiago>>. Una semplice informazione archiviata da qualche parte, questo è stato inizialmente, per me, il Cammino. Poi, qualche mese dopo, la particolarissima necessità di sparire per qualche tempo, di allontanarmi dai miei affetti, dai miei figli, dalla mia casa, dal mio lavoro. E la disperata ricerca di un posto dove andare a nascondermi, letteralmente parlando. Un posto dove rifugiarmi da solo con me stesso senza che nessuno sapesse dov’ero, almeno per un po’. E l’illuminazione, il ricordo di quella informazione. E la decisione immediata. Il poco tempo per capire cosa andavo ad affrontare, come farlo, come organizzarmi. La partenza, nascosta e drammatica. L’ansia, l’angoscia, la paura, il treno, i pensieri, i miei figli, la gente, lo zaino, le scarpe. E la mia Moleskine nera, ancora vergine delle emozioni che poi gli avrei inciso sopra non solo con la penna ma soprattutto con il sudore, con il sangue, con il dolore fisico e dell’anima. Poi Saint Jean, il Cammino, i pellegrini, gli odori, le montagne, gli scenari, le persone, i visi e gli sguardi, lo zaino e la storia di ognuno, i gesti piccoli e così devastanti, i ruscelli e i dormitori, gli albergue e la cerveza, le lacrime e la voce lontana dei miei figli. Il Cammino. E, alla sera, la mia Moleskine. Un diario. Come tanti, come tutti, forse. Il ritorno a casa, quell’abbraccio infinito con i bambini inginocchiato nel piazzale della stazione ferroviaria, le loro lacrime e le mie. La mia casa che non c’era più, che non era più la stessa, i segni dei quadri alle pareti ed una famiglia svanita improvvisamente. E quella Moleskine nera, tanto piccola da stare in una tasca tanto carica di dolori ed emozioni da non entrare nell’universo. Parole lette e rilette ancora, per mesi. E poi la decisione di lavorarci, di trascrivere tutto al computer, di farne un libro. Un lavoro fatto mentre pensavo che probabilmente era inutile farlo: chi mai, mi chiedevo, avrebbe pubblicato un libro così particolare, così intimista, così personale, di un autore assolutamente sconosciuto, di un uomo qualunque? Eppoi i dubbi ulteriori. La parte scritta durante il Cammino l’avevo lasciata com’era, senza aggiungere ne togliere, senza modificare. Dura, struggente a volte, drammatica spesso. Ma quello ero io mentre camminavo e quello volevo rimanesse scritto. Pubblicare o non pubblicare, tentare o no? E se poi lo pubblicano davvero? Ci sono io dentro quelle pagine, c’è molto di me stesso, dei miei figli, del mio passato. Sarebbe come aprire una finestra nella mia anima e permettere a chiunque lo voglia di entrarci. La cernita delle case editrici, una scelta indirizzata verso quelle che, dai dati trovati, sembravano più serie, più importanti, più organizzate. Avendo l’impressione, a volte, che stavo facendo di tutto per non farmelo pubblicare, il libro. Di andare a cercare il “difficile” così che quelle parole tornassero magicamente nella Moleskine e lì rimanessero per sempre. Ma anche la speranza che dopo i canonici tempi di attesa, dopo otto mesi o un anno, magari qualcuno mi avrebbe telefonato e mi avrebbe detto che avrebbe pubblicato il mio libro. A qualche casa editrice il lavoro stampato, ad altre soltanto una descrizione per mail del libro, una sinossi, tanto per vedere se poteva interessare. Plichi e mail spediti dimenticandomene un momento dopo. Solo che… Solo che il giorno dopo mi arriva una mail di padre Alfio Filippi, direttore editoriale di Dehoniane di Bologna. <<Provi a mandarmi il suo lavoro in formato cartaceo, abbiamo già pubblicato un libro sul Cammino, la vedo difficile ma lei me lo mandi e poi vedremo>>, mi scrive Padre Alfio. Spedisco la mattina stessa. Poi tra un annetto quando nessuno avrà risposto mi metterò il cuore in pace, penso. Due giorni dopo mi squilla il cellulare e dall’altra parte c’è padre Alfio: <<Mi è arrivato ieri pomeriggio il suo pacco. Ho letto tutto questa notte. Lo pubblichiamo.>> <<Come scusi?>>. Guardi che deve aver sbagliato numero, vorrei dirgli. Forse voleva telefonare a qualcun altro, mi avevano detto che ci volevano mesi e mesi di attesa, che è difficile, bla bla bla…. E invece riesco solo a dire <<grazie>>.