Meglio old o new?

Post N° 11


The Black Dahlia (Usa 2006)Titolo e Credits: The Black Dahlia (id.) Usa 2006 – Col-B/N 122 min – Regia. Brian DePalma – Interpreti: Josh Hartnett, Aaron Eckhart, Scarlett Johansson, Hilary Swank, Fiona Shaw – Sceneggiatura: Josh Friedman (da James Ellroy) Trama: Il brutale assassinio di una giovane aspirante starlett hollywoodiana, soprannominata da giornali e polizia La Dalia Nera, e le indagini conseguenti, innescano una spirale di intrighi e mettono in luce la corruzione della Los Angeles del 1947, dove nulla è quello che sembra.   Film d'apertura della 63a Mostra del Cinema di Venezia. Brian DePalma torna dopo un silenzio di quasi 4 anni con questo film definito Noir, ma che di tale mirabile genere ormai (irrimediabilmente) perduto ha ben poco. L’ambientazione nella Los Angeles del 1947, sulla carta perfetta, diviene qui superficiale quasi che il regista non abbia collaboratori in grado di scovare locations ideali (ed essendo molti gli edifici di LA realizzati nel periodo dai tardi anni ’20 ai primi ’50, riesce difficile credere che non se ne siano trovati…un po’ come si dicesse che a Roma è impossibile ritrovare edifici del Rinascimento…). La sceneggiatura (di J. Friedman, che già realizzò quella de La Guerra dei Mondi nel 2005), parte dal romanzo di James Ellroy, tirando fuori un racconto un po’ sgangherato con attimi di concitazione estrema alternati a lunghi momenti di pause e di più o meno inutili chiacchere (compresa la voce fuori campo del protagonista che stende la narrazione), quando non diventano dei veri e propri “vuoti narrativi”. Ma se già in passato (in special modo mi riferisco a quel Il Grande Sonno, di cui lo stesso Chandler asseriva mancassero pezzi perché non riusciva a legare gli eventi) tali “vuoti” sono diventati fattore determinante dello stile narrativo, nel film di DePalma spiazzano lo spettatore pur senza mai coinvolgerlo completamente. Certo, DePalma è sempre un grande regista e i suoi movimenti di macchina (quando si impegna) sono sempre superbi, come la magistrale lunga scena del ritrovamento del cadavere della Dalia, realizzato con un dolly a gru che dal livello stradale si innalza a superare un edificio per sorvolare il luogo dove giacciono i resti della vittima e, senza esitazioni o inutili e rocambolesche trovate, continua inesorabile la sua corsa virando di quasi 360 gradi e riatterrando al punto di partenza. Alcuni ralenty (a lui tanto cari) che aumentano in parte il pathos e in special modo nella scena dell’assassinio di Lee (peccato solo che sia la copia esatta -anche se al contrario- di quella famosa delle scale della stazione in the Untouchables, a sua volta ripresa da quella famosissima della Corazzata Potemkin), o una scena interamente in soggettiva ci dicono che Brian proprio un principiante insomma non è: certo è invece che un autore che cita se stesso e usa troppe volte l’espediente del ralenty, ci da da pensare. Ci da da pensare che forse questo film non lo voleva fare, o comunque un po’ controvoglia l’abbia fatto. La scelta degli attori (di Lucy Boulting e Johanna Ray) sarebbe poi da carcere preventivo: Josh Hartnett che sembra il pupo della porta accanto, ma interpreta –male- un duro; Aaron Eckhart, che la faccia da duro ce l’avrebbe pure, non fosse che qui sembra uno stralunato generico che abbia sbagliato teatro di posa; Hilary Swank che più che una dark lady sembra una improbabile drug queen, con un cipiglio degno di Joe Lewis; la Johansson delicata come una miniatura, stupenda con il suo perfetto abbigliamento d’epoca (di Dante Ferretti) ma monocorde e afflitta da un più o meno oscuro passato (che non ci è dato se non di afferrare a tratti, e certo non per merito dell’espressività dell’attrice…).   Una grande caratterista come Fiona Show (con un gagliardo passato da attrice shakespeariana) come Ramona Linscott, madre di Madeleine, al contrario degli altri, rende benissimo la sua follia con una recitazione che definire sopra le righe è semplicemente riduttivo. Interessante invece la trovata della narrazione di Elisabeth Short, la vittima, che mai apparirà da viva bensì solo attraverso spezzoni di provini da lei fatti nel tentativo di una improbabile carriera hollywoodiana. Il soprannome della vittima, Dahlia appunto, le viene attribuito dal successo del film di G. Marshall “The Blue Dahlia” (da Chandler) che, essendo uscito nel 1946, era una pellicola molto nota ai tempi, mentre quel “black” viene dall’abbigliamento preferito della ragazza (anche se nel romanzo di Ellroy si fa riferimento ad un fiore che Betty amava portare) Sorvolo poi sugli errori sia nel materiale di scena, che di auto e abbigliamento, errori che sono si sempre in agguato nelle ambientazioni non in tempi coevi, ma che proprio per questo meritano grandissima attenzione da parte degli addetti ai lavori. Nella scena dell'autopsia della Dahlia ad esempio, quando il patologo solleva la sua mano per mostrare delle ferite, è lampante la mollezza di un manichino, particolare che, personalmente, mi ha dato il senso stesso dell'approssimazione di questa pellicola. Un DePalma asfittico e fuori forma.   ** Da vedere con riserva