Essere e pensiero

Nel "laboratorio" della vita...


Per capire come è possibile muoversi nel "Palazzo", di cui parlava Borges (cfr. messaggio precedente), nelle sue stanze e nei suoi "laboratori", proviamo a riflettere, insieme a Tolstoj, sui diversi atteggiamenti mentali e conseguenti comportamenti che l'uomo può assumere nella "officina" della sua vita.Lev Tolstoj (1828-1910), massimo scrittore russo, giunto al culmine della sua  maturità letteraria, all'età di cinquant'anni, visse una profondissima crisi esistenziale, che lo riportò alla fede in Cristo e nel Vangelo. Da allora, pur continuando nell'attività più propriamente letteraria, si dedicò, per tutto il resto della vita, anche alla composizione di opere di carattere filosofico e religioso, sul senso dell'esistenza, della vita e della morte. Questi scritti, mentre era ancora in vita, ebbero larga diffusione in tutta Europa e, in modo clandestino, nella stessa Russia. Ghandhi dichiarò che la lettura di questi lavori lo aveva indotto fermamente sulla strada della nonviolenza, consentendogli di superare ogni forma di scetticismo. Dopo la morte di Tolstoj, invece, queste opere, stranamente, non furono più ristampate e quasi del tutto dimenticate. Solo da pochissimo è rinato l'interesse per quesi scritti, che risultano estremamente attuali e stimolanti, soprattutto nella situazione di crisi valoriale che lacera la nostra società.   Il brano che propongo in lettura è tratto da una splendida edizione di testi tolstoiani, tradotti per la prima volta dal russo in italiano, curata, per la Casa Editrice L'Epos, dal gruppo di ricerca "Amici di Tolstoj", sorto nel 1990, con l'intento di dare ampia diffusione agli ideali di pace, giustizia ed amore, di cui l'opera di Tolstoj è espressione emblematica.*  *  * "Ci sono  quattro - così almeno credo - differenti concezioni del mondo.     La prima é quella secondo la quale un uomo viene al mondo come qulacuno viene in un grande laboratorio, dove senza fare attenzione a ciò che si fa e perché si fa, fermando, distruggendo e guastando tutte le attrezzature, organizza per se stesso una vita la più piacevole possibile dentro quell'officina. I bambini e le persone ingenuamente egoiste si comportano così. E di gente come questa ce n'è tanta. Essi cercano il proprio benessere a spese dell'officina, ma dopo aver rotto e distrutto un mucchio di cose, si accorgono molto presto che il benessere cercato non c'è. Questo è il modo più comune e quasi tutti passano per questo modo di concepire la vita.     La seconda è quella per cui l'uomo comincia ad accorgersi che il laboratorio è un laboratorio, dove si sta facendo qualcosa di preciso, e che tutto in esso è ben organizzato, solo che per lui un posto non c'è. Ruote scintillanti girano, cinghie di trasmissione corrono, qualcosa si muove, si assembla. Ma tutto ciò non fa che disorientarlo: ed egli comincia a pensare che se il Padrone che lo ha mandato lì, che ha organizzato tutto così bene, non gli ha assegnato (lui crede così) un posto, questo è perchè probabilmente la sua destinazione è altrove, in un'altra officina. Questa è la gente che considera la vita quaggiù come una preparazione, una prova per un'altra vita, o come una vita decaduta, corrotta dal peccato - così la intende la gente di chiesa. Tutto è bene qui. "E la natura indifferente risplende di eterna bellezza" (famoso verso di Puskin). Ma il posto dell'uomo non è qui, ma laggiù, nell'aldilà.     Una terza concezione è quella secondo cui gli uomini, osservando questo lavoro incessante, che non è loro necessario e non dà loro la felicità, considerano tutta questa vita come un male e come la cosa più ragionevole e desiderabile per loro liberarsene, annientare questa loro vita (pessimismo buddista).     La quarta è quella per cui l'uomo, vedendosi circondato da questo lavoro che si compie ovunque, comprende che, poichè tutto e tutti lavorano, egli deve prendervi parte e cercare il suo posto di lavoro. E gli basta capire ciò, perchè gli divenga subito chiaro quello che deve fare e come farlo. E avendo cominciato a darsi da fare, ottiene quello che cercavano i primi, cioè la grande felicità personale, e si accorge che la felicità non è laggiù, lontana, nell'aldilà, come pensavano i secondi, ma qui nel compimento stesso dell'opera che gli è stata assegnata. E si accorge che la vita non è un male, come pensavano i terzi, ma un bene, non solo suo personale, cioè limitato nello spazio e nel tempo, come gli altri cercavano, ma un bene infinito ed eterno..."Lev Tolstoj,Perchè vivo?Riflessioni sullo scopo eil significato dell'esistenzaDiari - 19 luglio 1893L'Epos Società EditricePalermo,2004