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« Panze, presenze e insipienzeLa leggenda del santo in... »

Il bastardo abbandonato

Post n°7 pubblicato il 24 Febbraio 2007 da Patonsio
 



Il bastardo abbandonato



 



C’era una volta… già, in effetti, c’era… chi
può negarlo? Ma…



 



(Non è
detto che non si corra un rischio quando si comincia col dire: “C’era una
volta…”, infatti si può dare la fondata impressione che una volta, c’era… e che
adesso non c’è più.



Pertanto
non inizieremo in questo modo, lettori cari (anche se i fatti narrati, ormai,
magari li ha già, da gran tempo, dimenticati forse anche il protagonista di
questa storia), poiché ancora c’è. Eh, sì, poverino, c’è.



Non
diremo in che condizioni, per riguardo alla sensibilità delle lettrici più
compassionevoli.



Si
va a conoscerlo. Pronti? Bene, allora mano ai fazzoletti, ché forse, più
avanti, ci si intenerisce un poco
).



***



Insomma, c’era un omettino piccolo (e
maluccio in arnese, ma maluccio assai, eh!), corredato di tutte le principali
malattie, tra le quali alcune di importanza internazionale, che cercava un
posto di lavoro.



E lo cercava nella sua divisa ufficiale: una
giacchetta a quadrettini, di quelle che usavano – una volta dismesse dal
fratello più grande o dal cognato facoltoso
– qualche decennio orsono, un paio di calzoni in tinta, di due taglie più
grandi come la giacca, berrettuccio di pelo accartocciato d’animale (e di
colore) indefinibile ma certamente suicida, mocassini la cui consunzione era
solo parzialmente velata da uno strato simbionte di polvere antica, un borsello,
infine, in finta pelle di bue morto di crepacuore, ch’era l’immancabile
complemento della sua livrea di ragioniere computista provetto.



 



(Si
dirà, inoltre, ma solo allo scopo di restituirgli un poco del bagliore incerto
della sfilacciata dignità, ch’egli aveva un nome. Ah, sì! Eccome! Il fatto poi
che l’Autore non lo ricordi in questo momento, nulla toglie, nondimeno,
all’integrità morale dell’omino in questione…
)



***



Ma insomma, come fu, come non fu, un giorno si
presentò, rigirandosi il berrettuccio tra i moncherini nervosi, presso un suo
conoscente, il quale, personaggione importante – ed anche un poco temuto, tanto
per dirla bella schietta – aveva una qualcerta “influenza in società”.



 Questi
disse all’omettino:



̶ Mmh... Mmh... difficile. Difficile è. Ah, caro mio, in queste cose… Certo,
la cosa non è tanto facile... Ma mi dica:
lei che sa fare?



̶ Io, veramente, di essere, sono ragioniere. So fare il ragioniere. Ma però mi intendo un pocolino di poesia
anche, se tante volte…



̶ Per l’amore di Dio! Quale poesia e poesia! Vediamo un po’... Mi faccia
fare un colpo di telefonata.



Sollevò la cornetta e fece girare il disco
tante volte fin quando all’altro capo un altro personaggio si premurò con gran
deferenza di scappellarsi telefonicamente, poi disse:



̶ Pronto? Sì sono io. Senta, così e
cosà
(etc., etc.)... Umh... uhm... ah sì? Uhm. Va bèh! Nient’altro? Va bèh,
va bene... per quanto... ma comunque... eh, caro mio! Bah, la vita... ah!



Mise giù, si rivolse quindi all’ometto, che
si torceva le manine, preda dell’apprensione e del nervosismo meglio riusciti:



̶ Ma lei, sì, lei... ce n’ha attitudine allo sport?



̶ Spòrte?  ̶ preoccupòssi l’omarino – Guardi, io posso fare di conto, revisioni di
bilanci, partita doppia, ma come sporte,
benedèttoddìo, non è cosa mia! Lei si
pensi che l’asma, la sciatica, l’ernia del disco, le malformazioni della
colonna vertebrale, i disturbi dei vasi sanguigni, i tumori localizzati
all’osso, l’alluce valgo (tanto per citarne alcune), hanno trovato in me il
loro compagno ideale, e ottengono ogni giorno progressi strabilianti... Al
limite mi posso mettere su una gamba e recitare una poesia tenendo una matita
tra il naso e la bocca... guardi, guardi come faccio (si collocò, in effetti,
una matita fra il labbro superiore e il naso, e vacillando la resse contraendo
il grifo sgraziato):



̶Oh, passerino, passerino silvestre
e tumido...



 oh, passerino silente e madido...



̶ No, no, fermo per carità, basta così!  ̶
l’interruppe il pezzo grosso.



̶ Ancora un pezzetto... guardi... ché
ora viene il bello, eh? – supplicò l’ometto – “Piccolo passerino, dove vai tu? Nella notte buia t’involi...
ma il pianto gli tremava nella voce già di (per) suo stentata, e la matita
rimasticata, malferma sul labbruccio ritorto, voleva cader senz’altri indugi  
̶ “...oh
passerino, passerino del mio cuor, già nell’ombra presso i moli...



̶ Per favore, basta ’cu ’sta camurrìa[1]
di passerini, per l’amore di Dio! Senta, io mi compenetro. Mmàh! Eh Santo
Cristo! La posso favorire solo in questo modo: disponibile, c’è solo una
attività di tipo sportivo. Per ora dice
che
servono cristiani nani. Ci sarebbe... certo che anche come nano...
insomma, non è che lei mi aiuta molto! Bah! Comunque... con un po’ di buona volontà...
Vediamo che cosa si può fare. Allora, le interessa? Lei me lo deve dire. Se la
pensi... e io ci telefono.



 L’ometto
mostrava d’esser visibilmente costernato: si sentiva in difetto. Avrebbe voluto
scusarsi: per non esser nano a sufficienza (nonostante la sua complessione
gracile e miserrima); per il tempo che stava facendo perdere al personaggio
importante; per la condizione sua di infelice, altresì, che scocciava il mondo
a causa della sua esistenza disagiata e inopportuna. Si pentiva (ma, del resto,
si pentiva da sempre, di essere fondamentalmente inadeguato, inutile per la
vita consociativa) dei suoi peccati – ed (almeno!) in questo non era diverso
dagli altri...  
̶ nel modo in cui anche i suoi (dis)simili si pentono: non deplorando d’aver
compiuto un’azione biasimevole, ma rammaricandosi che essa abbia avuto un esito
infelice.



Chinò il capo.



Arrossì vergognandosi moltissimo. Una
lacrimuccia stentò sul ciglio. Cionondimeno, la frenò e in un sospiro disse:



̶ Sì.



***



Non passò neanche una settimana che ricevette
una chiamata. Per iscritto – il pezzo grosso non raccontava frottole.



 « ...(e così e cosà...) pertanto il signor... è invitato a presentarsi presso...
il giorno... alle ore... c.m... in qualità... (etc., etc…)
».



 Il
giorno stabilito si presentò addirittura un’ora prima, ma soltanto quando l’imbragarono
di tutto punto cominciò ad abbozzarsi nella mente un’idea sulla modalità in cui
si sarebbe sostanziato il suo preciso apporto nelle specialità di “Lancio del nano” a squadre, gara per lui
impegnativa non poco, del momento che sarebbe, da lì a poco, scagliato con la
maggior potenza possibile lungo una pista contrassegnata con bandierine
indicanti le misure raggiungibili, da uomini decisamente forzuti. Chiese:



̶ Scusate, dove mi devo mettere? Ma lo fece reprimendo a fatica le lacrime
che volevano zampillare a viva forza dagli occhi, infetti di tristezza
incancrenita.



 Gli fu
indicato il posto. Gli vennero tolti perentoriamente il borsello e gli occhiali.
Attese, modesto agnello sacrificale, l’inizio della gara.



 Le
squadre, composte da tre elementi, presero a riscaldarsi e a concertare ognuna
il proprio ordine dei lanci dei propri rispettivi nani.



 Quando
lo afferreranno da una specie di maniglione posto sulla parte posteriore dell’imbragatura,
cominciò a tremare vistosamente, e non seppe più trattenere le lagrime. Compresero
fin troppo bene la palmare inesistenza di qualsivoglia sua attitudine ad essere
scagliato il più lontano possibile – a fini ancorché competitivi – quando lo sentirono mugolare penosamente: «Oh passerino, passerino silvestre...», e gli dissero:



̶ Prenda lo slancio, non se ne stia così con le mani in mano... Su, faccia
qualche bel respiro... faccia vedere che fa qualcosa...



 Ma
l’ometto tremava, miagolando per il terrore, e quando atterrava rovinosamente,
dimostrando una invincibile indisposizione atletica, sussurrava biascicando, a
chi andava a recuperarlo:



̶Oh passerino, passerino
silvestre...
”, un po’ per l’intontimento, e un po’ per la speranza
inconscia di suscitare, nel nerboruto di turno, la pietà sufficiente acché non lo
scagliasse ancor una volta via, lontano, lontano, più distante che si può. Per
far più punti.



In pratica, per avvantaggiarsi sull’altra
squadra, lo si doveva scaraventar via con la massima violenza.



Così è la vita!



 



(È sì,
questa, una potente metafora della condizione di certi esseri umani, ma anche vista
da questo lato… bella metafora, certamente… ma come condizione… mah!
)



***



 Una
volta, infiammato da un soprassalto d’orgoglio virile, tornò indietro perfino da
solo, a stento reggendosi sulle rinsecchite gambette tremolanti, si guardò
spaurito intorno, mentre la teppaglia tifosa ai lati del campo lo considerava
con schifo e quasi raccapriccio, indirizzandogli versacci ingiuriosi, poiché
penalizzava la squadra con la sua scarsa partecipazione ginnica.



̶ Ma questo è trooppo negato!
Bisognerebbe mandarlo via subito!  
̶ si lamentavano i giuocatori col “mister”.



̶ Ello so, lo so... rispondeva il “mister” – ma che ci posso fare? Che volete da me? Me l’hanno
raccomandato, ’stu maravìgghia[2]
E a chi me l’ha raccomandato, purtroppo, di no non ce lo posso proprio dire...



̶ Ecchischifio! Ma però questo ci toglie il posto a quelli che sanno giocare veramente!



̶ Ca sì, sì, lo so. Lo so. Non mi
dite niente... – rispondeva il “mister”.



 La
logica e la ragione – perdevano quasi sempre! – imponevano che l’ometto non
facesse più parte della squadra, ma, per disperazione di tutti, egli vi rimase
invece a lungo, vestito sempre con la sua giacchetta stinta e sdrucita sui
gomiti e sul colletto di ragioniere, che si logorava un po’ di più ad ogni
fallimentare partita.



 Mantenne
costante, ad ogni modo, l’abitudine di supplicare con lo sguardo da cucciolo
bastardino abbandonato in autostrada il pubblico e gli astanti recitando
sottovoce: « Oh passerino, passerino
silvestre...
», mentre si riaggiustava gli occhiali con la manina offesa
dall’artrosi.



 



 


 



 



 



 















[1] Con questa scocciatura (N. d. C.).







[2] Quest’essere deforme,
scombinato (N. d. C.).





 
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