Fantasmi6

Il bastardo abbandonato


Il bastardo abbandonato   C’era una volta… già, in effetti, c’era… chi può negarlo? Ma…   (Non è detto che non si corra un rischio quando si comincia col dire: “C’era una volta…”, infatti si può dare la fondata impressione che una volta, c’era… e che adesso non c’è più. Pertanto non inizieremo in questo modo, lettori cari (anche se i fatti narrati, ormai, magari li ha già, da gran tempo, dimenticati forse anche il protagonista di questa storia), poiché ancora c’è. Eh, sì, poverino, c’è. Non diremo in che condizioni, per riguardo alla sensibilità delle lettrici più compassionevoli. Si va a conoscerlo. Pronti? Bene, allora mano ai fazzoletti, ché forse, più avanti, ci si intenerisce un poco). *** Insomma, c’era un omettino piccolo (e maluccio in arnese, ma maluccio assai, eh!), corredato di tutte le principali malattie, tra le quali alcune di importanza internazionale, che cercava un posto di lavoro. E lo cercava nella sua divisa ufficiale: una giacchetta a quadrettini, di quelle che usavano – una volta dismesse dal fratello più grande o dal cognato facoltoso – qualche decennio orsono, un paio di calzoni in tinta, di due taglie più grandi come la giacca, berrettuccio di pelo accartocciato d’animale (e di colore) indefinibile ma certamente suicida, mocassini la cui consunzione era solo parzialmente velata da uno strato simbionte di polvere antica, un borsello, infine, in finta pelle di bue morto di crepacuore, ch’era l’immancabile complemento della sua livrea di ragioniere computista provetto.   (Si dirà, inoltre, ma solo allo scopo di restituirgli un poco del bagliore incerto della sfilacciata dignità, ch’egli aveva un nome. Ah, sì! Eccome! Il fatto poi che l’Autore non lo ricordi in questo momento, nulla toglie, nondimeno, all’integrità morale dell’omino in questione…) *** Ma insomma, come fu, come non fu, un giorno si presentò, rigirandosi il berrettuccio tra i moncherini nervosi, presso un suo conoscente, il quale, personaggione importante – ed anche un poco temuto, tanto per dirla bella schietta – aveva una qualcerta “influenza in società”.  Questi disse all’omettino: ̶ Mmh... Mmh... difficile. Difficile è. Ah, caro mio, in queste cose… Certo, la cosa non è tanto facile... Ma mi dica: lei che sa fare? ̶ Io, veramente, di essere, sono ragioniere. So fare il ragioniere. Ma però mi intendo un pocolino di poesia anche, se tante volte… ̶ Per l’amore di Dio! Quale poesia e poesia! Vediamo un po’... Mi faccia fare un colpo di telefonata. Sollevò la cornetta e fece girare il disco tante volte fin quando all’altro capo un altro personaggio si premurò con gran deferenza di scappellarsi telefonicamente, poi disse: ̶ Pronto? Sì sono io. Senta, così e cosà (etc., etc.)... Umh... uhm... ah sì? Uhm. Va bèh! Nient’altro? Va bèh, va bene... per quanto... ma comunque... eh, caro mio! Bah, la vita... ah! Mise giù, si rivolse quindi all’ometto, che si torceva le manine, preda dell’apprensione e del nervosismo meglio riusciti: ̶ Ma lei, sì, lei... ce n’ha attitudine allo sport? ̶ Spòrte?  ̶ preoccupòssi l’omarino – Guardi, io posso fare di conto, revisioni di bilanci, partita doppia, ma come sporte, benedèttoddìo, non è cosa mia! Lei si pensi che l’asma, la sciatica, l’ernia del disco, le malformazioni della colonna vertebrale, i disturbi dei vasi sanguigni, i tumori localizzati all’osso, l’alluce valgo (tanto per citarne alcune), hanno trovato in me il loro compagno ideale, e ottengono ogni giorno progressi strabilianti... Al limite mi posso mettere su una gamba e recitare una poesia tenendo una matita tra il naso e la bocca... guardi, guardi come faccio (si collocò, in effetti, una matita fra il labbro superiore e il naso, e vacillando la resse contraendo il grifo sgraziato): ̶ “Oh, passerino, passerino silvestre e tumido...  oh, passerino silente e madido...” ̶ No, no, fermo per carità, basta così!  ̶ l’interruppe il pezzo grosso. ̶ Ancora un pezzetto... guardi... ché ora viene il bello, eh? – supplicò l’ometto – “Piccolo passerino, dove vai tu? Nella notte buia t’involi...” – ma il pianto gli tremava nella voce già di (per) suo stentata, e la matita rimasticata, malferma sul labbruccio ritorto, voleva cader senz’altri indugi  ̶ “...oh passerino, passerino del mio cuor, già nell’ombra presso i moli...” ̶ Per favore, basta ’cu ’sta camurrìa[1] di passerini, per l’amore di Dio! Senta, io mi compenetro. Mmàh! Eh Santo Cristo! La posso favorire solo in questo modo: disponibile, c’è solo una attività di tipo sportivo. Per ora dice che servono cristiani nani. Ci sarebbe... certo che anche come nano... insomma, non è che lei mi aiuta molto! Bah! Comunque... con un po’ di buona volontà... Vediamo che cosa si può fare. Allora, le interessa? Lei me lo deve dire. Se la pensi... e io ci telefono.  L’ometto mostrava d’esser visibilmente costernato: si sentiva in difetto. Avrebbe voluto scusarsi: per non esser nano a sufficienza (nonostante la sua complessione gracile e miserrima); per il tempo che stava facendo perdere al personaggio importante; per la condizione sua di infelice, altresì, che scocciava il mondo a causa della sua esistenza disagiata e inopportuna. Si pentiva (ma, del resto, si pentiva da sempre, di essere fondamentalmente inadeguato, inutile per la vita consociativa) dei suoi peccati – ed (almeno!) in questo non era diverso dagli altri...  ̶ nel modo in cui anche i suoi (dis)simili si pentono: non deplorando d’aver compiuto un’azione biasimevole, ma rammaricandosi che essa abbia avuto un esito infelice. Chinò il capo. Arrossì vergognandosi moltissimo. Una lacrimuccia stentò sul ciglio. Cionondimeno, la frenò e in un sospiro disse: ̶ Sì. *** Non passò neanche una settimana che ricevette una chiamata. Per iscritto – il pezzo grosso non raccontava frottole.  « ...(e così e cosà...) pertanto il signor... è invitato a presentarsi presso... il giorno... alle ore... c.m... in qualità... (etc., etc…)».  Il giorno stabilito si presentò addirittura un’ora prima, ma soltanto quando l’imbragarono di tutto punto cominciò ad abbozzarsi nella mente un’idea sulla modalità in cui si sarebbe sostanziato il suo preciso apporto nelle specialità di “Lancio del nano” a squadre, gara per lui impegnativa non poco, del momento che sarebbe, da lì a poco, scagliato con la maggior potenza possibile lungo una pista contrassegnata con bandierine indicanti le misure raggiungibili, da uomini decisamente forzuti. Chiese: ̶ Scusate, dove mi devo mettere? Ma lo fece reprimendo a fatica le lacrime che volevano zampillare a viva forza dagli occhi, infetti di tristezza incancrenita.  Gli fu indicato il posto. Gli vennero tolti perentoriamente il borsello e gli occhiali. Attese, modesto agnello sacrificale, l’inizio della gara.  Le squadre, composte da tre elementi, presero a riscaldarsi e a concertare ognuna il proprio ordine dei lanci dei propri rispettivi nani.  Quando lo afferreranno da una specie di maniglione posto sulla parte posteriore dell’imbragatura, cominciò a tremare vistosamente, e non seppe più trattenere le lagrime. Compresero fin troppo bene la palmare inesistenza di qualsivoglia sua attitudine ad essere scagliato il più lontano possibile – a fini ancorché competitivi – quando lo sentirono mugolare penosamente: «Oh passerino, passerino silvestre...», e gli dissero: ̶ Prenda lo slancio, non se ne stia così con le mani in mano... Su, faccia qualche bel respiro... faccia vedere che fa qualcosa...  Ma l’ometto tremava, miagolando per il terrore, e quando atterrava rovinosamente, dimostrando una invincibile indisposizione atletica, sussurrava biascicando, a chi andava a recuperarlo: ̶ “Oh passerino, passerino silvestre...”, un po’ per l’intontimento, e un po’ per la speranza inconscia di suscitare, nel nerboruto di turno, la pietà sufficiente acché non lo scagliasse ancor una volta via, lontano, lontano, più distante che si può. Per far più punti. In pratica, per avvantaggiarsi sull’altra squadra, lo si doveva scaraventar via con la massima violenza. Così è la vita!   (È sì, questa, una potente metafora della condizione di certi esseri umani, ma anche vista da questo lato… bella metafora, certamente… ma come condizione… mah!) ***  Una volta, infiammato da un soprassalto d’orgoglio virile, tornò indietro perfino da solo, a stento reggendosi sulle rinsecchite gambette tremolanti, si guardò spaurito intorno, mentre la teppaglia tifosa ai lati del campo lo considerava con schifo e quasi raccapriccio, indirizzandogli versacci ingiuriosi, poiché penalizzava la squadra con la sua scarsa partecipazione ginnica. ̶ Ma questo è trooppo negato! Bisognerebbe mandarlo via subito!  ̶ si lamentavano i giuocatori col “mister”. ̶ Ello so, lo so... – rispondeva il “mister” – ma che ci posso fare? Che volete da me? Me l’hanno raccomandato, ’stu maravìgghia…[2] E a chi me l’ha raccomandato, purtroppo, di no non ce lo posso proprio dire... ̶ Ecchischifio! Ma però questo ci toglie il posto a quelli che sanno giocare veramente! ̶ Ca sì, sì, lo so. Lo so. Non mi dite niente... – rispondeva il “mister”.  La logica e la ragione – perdevano quasi sempre! – imponevano che l’ometto non facesse più parte della squadra, ma, per disperazione di tutti, egli vi rimase invece a lungo, vestito sempre con la sua giacchetta stinta e sdrucita sui gomiti e sul colletto di ragioniere, che si logorava un po’ di più ad ogni fallimentare partita.  Mantenne costante, ad ogni modo, l’abitudine di supplicare con lo sguardo da cucciolo bastardino abbandonato in autostrada il pubblico e gli astanti recitando sottovoce: « Oh passerino, passerino silvestre...», mentre si riaggiustava gli occhiali con la manina offesa dall’artrosi.             [1] Con questa scocciatura (N. d. C.). [2] Quest’essere deforme, scombinato (N. d. C.).