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« La leggenda del santo in...

L'uomo invisibile

Post n°9 pubblicato il 05 Febbraio 2010 da Patonsio

(Romanza triste e – si teme – forse inconsolabile)

(Tracima sulla scena uno stuolo di angioletti grassocci e rubicondi, i quali iniziano a prender posto in semicerchio, e quando han finito di litigare per la disposizione, concertati da una celeste creatura della stessa stirpe, ma più pasciuta e ragguardevole, con fiato melodioso gorgheggiano:)

Oh oh - hoo, oh oh – hoo, qui si canta oggi la storia di quel tristo non-eroe, metà uomo e metà niente, che di pene e sofferenze non si die’ giammai per sazio... oh oh - hoo, oh oh – hoo...

(Dal più profondo buio appare un puntino di luce tenue, delicata, evanescente, che sarà bene identificare, d’ora in avanti, come la:Voce narrante”:)  

– Chi mai non desiderò, una volta nella vita, una sola volta almeno, d’aver come suo compagno il divino e grato dono d’eclissarsi all’altrui vista? Di recarsi indisturbato colà dove egli potrebbe fare tutto ciò che vuole senza che la reprimenda o un divieto lo impedisca?

Beh, qualcuno forse sì, ma non certo il sottoscritto, che da quando appena nato iniziò a ricercare la sottil soddisfazione di passar inosservato agli sguardi dei parenti, familiari e tipi affini, trovò invece il triste veto e l’assenza d’ogne encomio per l’esigua produzione – non del tutto scarsa, invero – di qualcerte deiezioni seminate ad un dipresso sotto i tavoli di casa e all’interno del mobilio sufficiente ad occultarmi sol per pochi istanti, certo, ma felici e spensierati.

(Angioletti:)

Il piccino già protesta: lui si vuole emancipare: non vuol esser disturbato quando ha da cachicchiare... oh oh - hoo, oh oh – hoo...

(Voce narrante:)

– Io volevo restar solo, farmi i fatti miei tranquillo, ma il divieto m’incalzava, non lasciava a me l’arbitrio (più che lecito, d’altronde) ch’è diritto ad ogni umano.

Come può un giovinetto, nell’età ch’è più ferace, crescer saldo forte e saggio, quando il mondo questi priva dell’elogio costruttivo? Io lo ignoro, e mai lo seppi, poverino me davvero… fatto sta che una mattina, non dovendo andare a scuola (dato che si celebrava il patrono cittadino), per dispetto, e un po’ per giuoco, mi nascosi astutamente nella stanza a me proibita: la paterna biblioteca.

Era allora, il mio papà, un severo professore di antiche e strane cose che capire non potevo, così piccolo e ignorante: tutti i nomi strampalati che leggevo fra le coste dei suoi libri allineati, molte volte ripetevan “…gia” e “…fia” nel finale dei lor titoli solenni, ma ce n’erano, altrimenti, che recavan pure: “…zia”. Fui allora incuriosito di conoscere, potendo, una qualche mia parente di cui non sapevo ancora; ero infatti, a quell’età, di sicuro affascinato da quel mondo oscuro e vago degli amori ostacolati fra parenti “stretti” e quindi la mia blanda comprensione dello scibile appropriato mi guidò, seduta stante, verso il libro misterioso.

Io pensavo di trovare qualche pagina “piccante”, od almeno qualche fatto che valesse, giustamente, l’inclemente inibizione, ma quel libro asseverava (chi poteva mai saperlo?), dalle prime righe già, la promessa sibillina d’un “controllo superiore”.

(Angioletti:)

Stai attento, piccolino... chè la coda puoi bruciare... oh oh - hoo, oh oh – hoo... non è lecito sfogliare il librone magistrale... oh oh - hoo, oh oh – hoo...

(Voce narrante:)

– Cominciai con lo sfogliare quelle pagine ingiallite, butterate qua e là dalle pustole del tempo. Vi trovai, per ogni foglio, dei disegni alquanto astrusi, ed oscure spiegazioni con parole in ritornello. Si diceva, per esempio, che bastava sol ripeter certi suoni più e più volte per chiamare da lontano gente morta da un bel pò; vi leggevo addirittura che si può spostar gli oggetti con la forza della mente; che si può, velocemente, attraverso il tempo andare. Ci capivo poco o nulla, tranne che per quella parte che più d’altre mi convinse come può una persona tramutare il suo sembiante in moltissime altre forme: con la forza del pensiero (riportava quel librone) si può accedere a risorse mai esplorate ed inaudite.

– “Guarda guarda...” – io mi dissi – “vuoi vedere allora che se è poi vero quel che è scritto, potrei andare a mio piacere... non veduto dalla gente? Se ripeto queste frasi che qui dice necessarie, io divento, per magia... un fantasma immateriale? Che sciocchezza è questa qua! Basterebbe, quindi, pare, con un paio di candele messe in questa posizione... recitare la preghiera... pari pari, com’è qui. Oh, ce n’è di cose strambe, se tu vai a vedere in giro! Questa, poi... le batte tutte! Mmh... ma ti immagini... però..?

Lasciai allora le facezie e i pensieri strani che mi turbavano il cervello assegnando loro stima di minchiate, o poco più: “Certo che, se si potesse... ma che vado mai a pensare... se papà poi lo scoprisse...”. Rinserrai pertanto il libro nel suo posto regolare, e risolsi, un pò confuso, di far perdere mie tracce, rammentando a me però... dove fosser le candele...

***

Ci tornai due giorni dopo, tutto preso dalla smania di trovare, infine, un punto che smentisse platealmente l’impossibile faccenda. E per meglio dimostrare che non era che un inganno, mi portai, nascoste in tasca, due candele della mamma. Scoperchiai quel libro folle, imbastii la messinscena, recitai le due strofette là disposte alla bisogna. Non accadde nulla, invero, senonchè, per la paura di venire lì scoperto, m’affrettai a cancellare ogni traccia del passaggio. Ma fu un forte mal di testa che mi spinse ad abbreviare l’escursione clandestina: là per là pensai che fosse risultanza dello sgarro perpetrato in biblioteca, ed il senso della colpa tutta notte m’inseguì.

L’indomani al far del giorno, mi presento a colazione. Un pò pallido in realtà, ma non fa granchè stupore: ero anemico, a quel tempo, mingherlino e allampanato. Chiesi a mamma il mio panino con il burro e marmellata. Per risposta – ma tu guarda! – lei cercava me in tinello dove avevo il mio lettino, non scorgendo invece che (a due passi!) io stavo là. Mi cercava, preoccupata, pur sentendo la mia voce; dichiarò, assai seccata, che lo scherzo era finito: – «Vieni, e sbrigati, monello! Sei in ritardo per la scuola. C’è in cucina la cartella, la merenda e il grembiulino..!»

Poco dopo giunsi a scuola, installandomi al mio posto. Il maestro chiamò appello: quando fece il nome mio, io risposi come sempre. Si guardò allora in giro, sospettoso e un pò irritato, ripetè il mio nome ancora, ed alzai dunque la mano non spiegandomi perchè non vedesse il gesto mio. Lui fu secco e perentorio:  

– «Non mi piaccion questi scherzi! Lo credete divertente? Su, non fatemi arrabbiare. Che non si ripeta più!»

Vergognandomi parecchio, io non seppi replicare: me ne stetti zitto e buono senza dire niente più.

Iniziai a capir qualcosa solamente un pò più tardi.

Il compagno mio di banco, come non fossi presente, scorreggiò senza pudore proprio verso il canto mio. “Ma che è pazzo?” – io mi chiesi, e bussai sulla sua spalla, e quel tipo originale si girò verso di me. Strabuzzò gli occhietti intorno, come se non mi vedesse... Agitai quindi la mano come a dire: «Io sto qua!». Quello, niente, sbigottiva. Pensai allora alle candele, alle frasi ripetute, al mio forte mal di testa. “Vuoi vedere” – indi mi dissi – “che quel tipo di magia ha davvero un’efficacia..! minchia, cose... cose turche! Per davvero funzionò! ”. Mi alzai allora in piedi agitando le mie braccia come fossi per chiamare qualchedun ch’era lontano. Nè il maestro nè i compagni ravvisarono il mio gesto. Andai dietro la lavagna e fischiai da pecoraro, la qual cosa indispettì oltremodo il mio maestro, che il colpevole cercò... per i banchi a lui dinanzi! Qual non fu la mia sorpresa nel vedermi trasformato in folletto birichino... un fantasma trasparente!

Ma un problema, tutto nuovo, in quel mentre si affacciò: come fare a ritornare come prima, lestamente?

(Angioletti:)

Minchia minchia... cose turche! oh oh - hoo, oh oh – hoo... o si trova presto e bene il rimedio che conviene... o il nanetto trasparente non ritorna fra la gente... oh oh - hoo, oh oh – hoo...

(Voce narrante:) 

– Tornai quindi presto a casa, aspettando con pazienza che qualcuno aprisse l’uscio, sì che dentro m’infilassi senza dare spiegazioni. Ritrovate le candele, recitai la cabaletta: non di più che un sol minuto mi bastò per rimpatriare nel mio corpo abituale, come che m’avesser fatto uno spruzzo di pittura nuova in tutta la persona. Ma la gioia fu incompleta, dacchè la mia cara Tata, ritrovandosi di fronte proprio me all’improvviso (dato che ancor non c’ero solo un attimo dianzi), palesando la sorpresa si lasciò sfuggir di mano la zuppiera con il pranzo, che per terra rovinò con fracasso madornale. Nulla valsero le scuse con la mamma ed il papà: ricevetti punizione esemplare d’ordinanza.

***

Non bastò però a frenare la mia brama di ricerca, sicchè in men che non si dica riprovai l’esperimento.

Fu alla festa d’un compagno, dove feci gozzoviglia con le pizze e i salatini, finchè non ebbi l’urgenza di isolarmi in gabinetto, dove svolsi i miei bisogni e m’apprestai all’orazione (con me avevo, manco a dirlo, le candele portentose...). Ritornato che fui spettro, io mi accinsi a venir fuori per spiare un pò qua un pò là a mio uso e godimento, sicchè feci per uscire, ma una mano già afferrava la maniglia della porta: entrò dentro immantinente affannata una parente brutta e vecchia del mio amico, che credendosi non vista, diè di piglio a una rassegna di sospiri sforzi e ragli, concentrata sulla tazza. Non vi dico l’imbarazzo che subii in virtù del fatto che la detta zitellona sospirava a più non posso dopo ogni turpe tonfo; bestemmiava a profusione per produrne di novelli; scaracchiava nella vasca (rugumando oscenamente come in guisa di pignatta ribollente di frattaglie) per gli sforzi sostenuti, concludendo ad ogni strofa con «Gesù, Gesù, Gesù...».

***

Già valeva forse questo a stroncare i miei bollori, ma si sa che l’età verde non è buona consigliera: volli ancora qualche volta cimentare la perizia.

Fu così che mi recai (per un altro tentativo) a vedere un nuovo film che si dava giù in città. Entrai gratis, ovviamente, tutto fiero e assai contento di scroccare la visione. La pellicola scorreva, quando venne una signora “molto in carne”, in verità, che si scelse come posto quello dove io sedevo. Si accasciò sulla poltrona valutandola per vuota, e schiacciò a me gli intestini e lo sterno, in un baleno. Io gemetti dal dolore e per il soffocamento, quella intese un che di “strano” e gridò diffusamente. Fu il bailamme, in un istante. Accorreva il bigliettaio, il padrone con i figli, i cognati ed i nipoti. Poco ci mancò davvero che finisse a quarantotto. Ritornai pesto e malconcio ad usare le candele maledette e sventurate promettendo che in futuro io le avrei ignorate ormai: respiravo con fatica ed il danno corporale era niente in paragone a spavento, fifa, angoscia che provai nell’occasione.

***

Lasciai star, per qualche tempo, le candele sciagurate e la lor magia nefasta.

*

*

*

Ero già un bel giovanotto quando entrai, per caso, un giorno, in un’agenzia di viaggi. Belle foto, panorami favolosi e straordinari, gran vedute e prospettive, strepitosi luoghi e assolati territori leggendari. “Ah, che voglia!” – pensai allora, ed un vago struggimento m’infiammò la fantasia.

Ci pensavo troppo spesso, non dormendo più la notte per la smania, certe volte. Agli amici raccontavo ogni ebbrezza di quei posti che sol nella mia impazienza conoscevo in lungo e in largo.

Studiai a fondo la questione: alla prima idonea data io potevo, a questo punto, preparare i miei bagagli (e cioè uno spazzolino, fazzoletto per il naso, il cronometro da polso ed un pò di sigarette...) e partire alla ventura per scoprire i nuovi mondi... tranne che per un dettaglio... fastidioso anzichenò: le finanze mie d’allora permettevano soltanto di recarmi al tabaccaio e acquistare giusto un paio di pacchetti di “Camèll [1]”.

(Angioletti – ormai fuori riga, disordinati. Chi sbocconcella un panino, chi rosica le unghie, chi si netta gli spazi infra-dito dei piedi:)

Oh oh - hoo, oh oh – hoo... Le Mabbòro[2], le Mabbòro, lui vorrebbe le Mabbò: non c’ha i soldi per comprarle, quindi succhia le “Camèll”..! Oh oh - hoo, oh oh – hoo...

  (Voce narrante)  

– Mi veniva lo sconforto a pensar che chissà quando, me meschino, avrei potuto guadagnarmi la vacanza. Disperavo di raggiunger quell’ignota e degna meta, ma ad un tratto mi sovvenne dei peccati giovanili. Era omai passato tempo dalle mie disavventure procurate per virtù di magia mal governata, e “Vuoi vedere” – argomentai – “che adesso, che son grande, io sarò capace infine di imbroccare la via giusta, senza danno più per me? ”.

Riacchiappai quelle candele segregate su in soffitta. Ero molto emozionato nel tentare ancor la sorte...

Come fu, come non fu, quando venne l’occasione che una nave da crociera attraccò un bel giorno al porto, m’infilai da clandestino accodandomi ad un gruppo di turisti sbevazzoni. Alloggiatomi per bene presi parte ai lor festini, divertendomi un bel pò: non riuscivano a capire come mai i beveraggi scomparissero di mano, chi di loro, screanzato, desse pizzichi al popò, come mai i manicaretti scomparissero in un fiat, chi cambiasse il dentifricio col cerotto delle scarpe, e tant’altre bagattelle inventate là per là.

Fu assai lieto quel tragitto! Quanti posti visitammo! Quante terre sconosciute a saziare gli occhi miei!

E arrivò infine il giorno che sbarcammo con le lance su una spiaggia tropicale. Qual non fu la meraviglia nel vedermi intorno un mondo mai neanche immaginato! Quelle acque, quei colori... frastornavano le idee. Era come aver varcato le colonne a Gibilterra[3], come aver diretto Argo[4] nella Colchide remota, come entrare dentro un libro di quel tale... Giulio Verne. Scorrazzai da dissennato attraverso l’arenile, percorrevo con la vista quelle rive affatturate, e mi venne il ghiribizzo d’esplorare un pò più in là. Proseguii tutto inebriato nell’interno di quel sito, perlustrando ad ogni palmo, ogni cosa esaminando: quante strane e grandi piante, e che odori eccezionali! Nè temevo per le belve eventuali al mio passaggio: non potevano vedermi. Non pensavo più al battello, ai compagni vacanzieri, alle magiche candele occultate nella nave. Non pensai più a nulla, quindi: incombeva il paradiso, la felicità impensata, la delizia intorno a me! Che momenti di esultanza! Che goduria e rapimento! Era tanta l’allegria che vagai per molte ore, al cammino di buon passo...

***

Ora son più che un adulto. Non ci penso più a viaggiare. Ho perduto interamente quella smania esuberante di spostarmi per il mondo.

La mia vita accetto, quasi.

Ma un rammarico mi resta: ventott’anni son passati, ma se vedo transitare una nave laggiù, in fondo, dalle rive di quest’ermo[5], io mi sbraccio inutilmente.

Quale che sia la bandiera, quelli vedono soltanto – poveretto me, davvero, disgraziato inconsistente – una landa spopolata.

Solo un’isola deserta.

(Angioletti:)

Non lo vedono, “porèllo”; nè domani e manco mai: lui non s’è portato appresso, infelice smemorato, quelle orribili candele. Non ha visto ripartire il battello dei festini se non quando era soltanto un puntino all’orizzonte… Oh oh - hoo, oh oh – hoo... Ahi, ahi, ahi... bah, tant’è. Oh oh - hoo, oh oh – hoo... ooOooh! Oh?!?

(Questi vengono, alla buon ora, cacciati e dispersi a suon di poderosi calcioni nei divini culetti rubicondi dal legittimo e invisibile titolare della “Voce narrante”, il quale sospira, adesso, un pochino sollevato).  

  

 

 

 

 

 

 

 



[1] Licenza poetica (N. d. R.).

[2]  Come sopra.

[3] Le Colonne d’Ercole nella letteratura classica indicano il limite estremo del mondo cono­sciuto. Oltre che un concetto geografico, esprimono anche il concetto di “limite della conoscenza”. Attualmente si considera lo stretto di Gibilterra essere il confine nec plus ultra (lett. “non più avanti”) scelto da Eracle. Secondo la mitologia l’eroe, in una delle sue dodici fatiche, giunse sui monti Calpe ed Abila creduti i limiti estremi del mondo, oltre i quali era vietato il passaggio a tutti i mortali. Separò il monte ivi presente in due parti (le due colonne d’Ercole) e incise la scritta “nec plus ultra” (N. d. R.).

[4] Gli Argonauti (in greco Ἀργοναῦται - pronuncia Argonàùtai) furono quel gruppo di circa 50 eroi che, sotto la guida di Giasone, diedero vita ad una delle più note ed affascinanti narrazioni della mitologia greca: l’avventuroso viaggio a bordo della nave Argo che li condurrà nelle ostili terre della Colchide, alla conquista del vello d’oro (N. d. R.). 

[5] Ermo [èr-mo]; ant. Eremo; agg; lett., poet. Solitario, romito, lontano da luoghi abitati: sempre caro mi fu quest’è. colle. Leopardi (N. d. R.).

 

 
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