Donato Menichella è, probabilmente, per molti un nome come tanti. Un nome senza volto e a
volte un volto senza nome. Ma Donato Menichella è, per l’Italia, intera
uno dei personaggi che ne ha influenzato, maggiormente, la storia. Come
direttore generale dell’Iri, Menichella fu negli anni trenta, accanto
ad Alberto Beneduce, uno dei massimi protagonisti dell’intervento
pubblico in economia; dopo la guerra divenne governatore della Banca
d’Italia e prese decisioni fondamentali sulla moneta, il sistema
bancario, lo sviluppo economico. La sua smania di visibilità era
inversamente proporzionale alle sue competenza ed alla concretezza dei
suoi interventi. Pur tendendo a restare dietro le quinte egli era un
uomo dal forte carisma che amava il suo Paese ed il suo lavoro. Con lui
alla guida della Banca d’Italia, il Paese passò dalle rovine della
guerra al "miracolo economico". E mentre il Paese viveva il suo boom,
grazie a Menichella la lira si guadagnò il cosiddetto "Oscar", un
prestigioso riconoscimento assegnato alla valuta più stabile al mondo.
* Politicamente Menichella fu un “conservatore illuminato”, vicino a De Gasperi e
sostenitore, nei fatti, della cultura dell’esempio tanto che di lui si
parla anche nel recente libro di Stella e Rizzo, La deriva, per
evidenziare il grande spessore morale e la caratura dell’uomo. Caratura
che si evince, chiaramente, dalle parole del figlio Vincenzo, a cui il
padre lasciò in eredità un opuscolo sul perché egli non diventò ricco, ...Mio
padre era uno "specialista dell'autoriduzione". Autoridusse il suo
stipendio nell'anteguerra a meno della metà. Non ritirò, quando fu
reintegrato all'IRI, due anni e mezzo di stipendio; al presidente
Paratore rispose: 'Dall'ottobre 1943 al febbraio 1946 non ho
lavorato!'. Fissò il suo stipendio nel dopoguerra a meno della metà di
quanto gli veniva proposto; lo mantenne sempre basso. Se il decoro del
grado si misura dallo stipendio, agì in modo spudoratamente indecoroso!
Il 23 gennaio 1966, al compimento del settantesimo anno, chiese ed
ottenne che gli riducessero il trattamento di quiescenza, praticamente
alla metà, giustificandosi così: 'Ho verificato che da pensionato mi
servono molti meno danari!'. Ai figli ha lasciato un opuscolo dal
titolo: 'Come è che non sono diventato ricco', documentandoci, con atti
e lettere, queste ed altre rinunce a posti, prebende e cariche. Voleva
giustificarsi con noi: 'Vedete i denari non me li sono spesi con le
donne; non ci sono, e perciò non li trovate, perché non li ho mai
presi!' Mia madre (gli voleva molto bene) ha sempre accettato, sia pure
con rassegnazione, tali sue peregrine iniziative (anche quando dovemmo
venderci la casa e consumare l'eredità di lei); però ogni tanto ci
faceva un gesto toccandosi la testa, come a dire: 'Quest'uomo non è
onesto, è da interdire' poi sorrideva e si capiva che era orgogliosa di
lui. (Vincenzo Menichella, Roma, "Giornata Menichella", 23 gennaio 1986).
Menichella
aveva grande attenzione per la piccola impresa e per l’agricoltura.
Era, al tempo stesso, un industrialista (Iri) e un localista: un
apparente paradosso che si spiega con la sua diffidenza per una classe
di capitalisti privati che aveva dimostrato grande propensione ad
alimentarsi di aiuti pubblici e a scaricare le perdite sullo stato,
senza rischiare in proprio. ( già allora si guardava con diffidenza ai
famosi “capitali coraggiosi” ma, evidentemente, altri hanno preferito
guardare in direzioni opposte). Si dimise dalla carica di governatore
nel 1960 e non volle ricoprire, nonostante le innumerevoli offerte, altri
incarichi. Menichella morì nel 1984. Non lasciò agli eredi grandi
patrimoni ma, sicuramente, lasciò loro e all’Italia intera un grande
esempio. Un esempio, purtroppo, accantonato in nome dell’avidità e
della cupidigia. Riusciremo a recuperare e seguire questo esempio? Il
Paese ne ha certamente bisogno!