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Cominciare a correre

Post n°11 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da bellicapellidgl3

 

 

Un anno fa, esattamente un anno fa, mi preparavo a dare una delle notizie più difficili della mia vita.

Un giovane uomo, era un fotografo, infatti aveva un modo molto “visivo” di comunicare con le parole. 
Era arrivato da noi davvero malmesso, al posto dei piedi due moncherini dove residuava il tallone e una piccola parte del piede con una estesa lesione profonda e bilaterale.

“Siete la mia ultima spiaggia” disse.

Ma i suoi occhi dicevano altro.
Stupitemi, dicevano. Voglio credere che potrete guarirmi, non ho perso la voglia di guarire.

Era una sfida difficile, ammetto, ma ho creduto anche io di poterlo rimettere in piedi con delle calzature adeguate.  Chi mi conosce sa la ferocia che può assumere la mia determinazione.
Mi ci sono buttata anima e corpo, medicazioni, consulti, interventi per migliorare la circolazione, barili di antibiotici.

Lui mi parlava, mi parlava molto. Io ascoltavo.
Era un maestro di Karate per hobby, cintura nera.
Mi parlava di filosofia orientale, ho incontrato anche il Dalai Lama, mi diceva.
A volte piangeva.
Io no, io piangevo a casa.
Sua figlia era taciturna, mi veniva incontro in corridoio tutti i giorni con uno zaino di tela, i capelli raccolti, lo sguardo supplichevole.
Io sceglievo con cura le parole, soppesavo bene, due chili di speranza, uno e mezzo di fallimento. Ogni giorno il bilancio si spostava ora di qua, ora di là.

Ma poi ho dovuto fare una scelta.  Esiste un momento in cui l’accanimento può uccidere. 

In cui la soluzione più drastica e disperata è l’unica per ritornare a vivere.
Era dimagrito, l’infezione lo stava divorando, germi armati fino ai denti  contro cui non avevo più armi. Il rene cominciava a fare le bizze.

Dovevo prendere una decisione.

Entrai nella stanza del mio primario, più per avere un conforto che una risposta:

”Non possiamo sempre vincere” mi disse e mi chiamò per nome.

Io tacevo carica di frustrazione, lo guardavo come se potesse tirare fuori dal cilindro una soluzione alternativa.
Lui era bravo, mi aveva insegnato tutto quello che sapevo. Mi aveva insegnato soprattutto che i paziente viene prima di tutto.

“Vuoi che ci parli io?” mi chiese con dolcezza.

Io avevo solo voglia di tirare giù tutti i libri dagli scaffali come le isteriche di certi film.

“No, grazie. L’ho gestito io, è giusto che ci parli io”.

Lui pianse.
Con dignità, quasi in silenzio.
Amputare sotto il ginocchio. Entrambe le gambe. Entrambe. 

L’unico caso nella mia vita fino ad oggi.
Io continuavo a parlare, nemmeno ricordo cosa dicessi, non ci credevo nemmeno io:

”Lei sarà un uomo rinato, so che in questo momento sembra la cosa più drammatica del mondo. Tornerà a rimettersi in piedi, si riprenderà la sua vita”.

Intanto il senso di fallimento mi schiacciava, provavo una sofferenza acuta proprio al centro del petto.
Sua figlia col suo zaino mi aspettavano immancabilmente in corridoio, muti entrambi come sempre, era piena di occhi, aveva questi occhi che le mangiavano tutta la faccia.
Era bella in un modo quasi triste.

Circa sei mesi dopo qualcuno bussò alla porta del Day Hospital.
Sollevai lo sguardo e lo vidi.
Sorridente, ingrassato, pieno di colori.

E in piedi.

Per una frazione di secondo faticai a riconoscerlo. Una giacca di tweed, gli occhi nerissimi.

E mi disse qualcosa che non ho più dimenticato:

“Dottoressa, quando incontrai il Dalai Lama, molti anni fa, mi disse una cosa per me allora incomprensibile.

Mi disse: -Quando non potrai più camminare, comincerai a correre-

Finalmente oggi so cosa volesse dire”.

 
 
 
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