Creato da bellicapellidgl3 il 19/11/2014

Pettino Pensieri

Oggi è un giorno perfetto per volare

 

Imparare a lasciare andare

Post n°21 pubblicato il 13 Febbraio 2015 da bellicapellidgl3

 

Conosco il mondo virtuale.

Mi ha insegnato nel corso degli anni molte cose di me.
Ad esempio,  quanto le emozioni possano prescindere dal piacersi solo guardandosi, prima di allora certi meccanismi si innescavano solo così.

Ignoravo quanto invece le emozioni possano attraversare uno schermo, prima ancora della voce, quanto una relazione epistolare, per così dire, possa acquistare forza, montare giorno per giorno con uno strano acceleratore che di norma non interviene nelle relazioni ordinarie.
Se troviamo chi ci corrisponde – e non sto dicendo che sia una cosa facile, tutt’altro-  è più facile mettersi a nudo, l’intimità si instaura in tempi insospettati, il coinvolgimento può essere altrettanto forte che per qualcuno che abbiamo guardato negli occhi.

So che sto parlando di cose che molti hanno sperimentato, però io parlo di me, adesso.
Della riflessione che è maturata in me in questi giorni riguardo a certe dinamiche, appunto.

Un rapporto virtuale può arricchirsi di sentimenti reali, la tenerezza, l’affetto, la preoccupazione, l’empatia, la curiosità, il desiderio.
Certe persone possono entrare nelle nostre trame più di quanto si rendano conto. 
Nei nostri pensieri al risveglio.
Possono entrare nelle nostre attese, nel senso di inquietudine.
Possono diventare mancanza.  
Sofferenza, anche.  
E non è detto che dall’altra parte noi assumiamo la stessa valenza.

E, se non si gioca ad armi pari, se quello che abbiamo messo sul piatto non ha lo stesso valore, se non riusciamo più a tenerci, a darci , forse dobbiamo imparare a lasciarli andare.

Lasciarli andare dentro di noi.

Spezzare quel legame che in fondo è solo nel nostro vissuto.
Smettere di aspettare che quel qualcuno possa darci ciò che avevamo creduto di vedere.

Non è così facile lasciarli andare. Per niente, almeno per me.
Perché non c’è nulla di virtuale in quello che proviamo. Nulla di virtuale nel restare intrappolati in un immaginario sospeso che mai è diventato realtà.

E allora mi chiedo.

In una vita in cui affrontiamo perdite e cerchiamo di metabolizzarle, è sano provare a costruire rapporti che, già per la modalità in cui nascono,  possano aumentare i nostri strappi, esporci così alle intemperie? 

Alla delusione.
Al non essere per l’altro quello che vorremmo essere.

Vale tutto questo l’emozione illusa che ci hanno regalato?

 
 
 

Nella terra di nessuno

Post n°20 pubblicato il 03 Febbraio 2015 da bellicapellidgl3

 

C’era un tempo in cui mi fidavo molto del mio istinto.

Procedevo navigando a vista, mi bastava sentire le vibrazioni, non avevo nemmeno bisogno di attivare altri circuiti più razionali.
Mi fidavo, semplicemente.
Era come avere un GPS interno, percepivo le interferenze se qualcuno provava a mentire o a millantare o a fare giochi di prestigio.
Ed ero bello abbandonarsi alle persone, accogliere, esporsi senza cautele.

Cosa c’è di più bello che entrare in osmosi per costruire legami, quei legami che restano per tempi indefiniti, tenuti insieme dai fili della stima, della tenerezza, dell’indulgenza, della fiducia incondizionata.
Mi sentivo forte di questo talento, a tratti spavalda.
Io sento le persone, mi dicevo.
E non mi sono mai sbagliata.

Eppure.

Oggi sono un’altra donna e non mi ritrovo, non mi sento molto nei miei panni. 
Avverto una cautela che prima non conoscevo, instillata di diffidenza che è un’ospite nuova dentro di me e che trovo scomoda.
Il mio istinto ha perso credibilità, lo ascolto, ma argomento di continuo con lui, provo a smontare ogni sua asserzione facendo appello a una razionalità che spesso non è un buon metro di misura per valutare chi ho di fronte.

Sono in una terra di nessuno in cui non so che direzione prendere, non so a cosa credere, non so dove sia la menzogna e dove la limpidezza, dove la manipolazione e l’autenticità di intenti.

Ho paura di sbagliare. E non voglio che mi feriscano ancora.

 

 

 
 
 

Della solitudine

Post n°19 pubblicato il 27 Gennaio 2015 da bellicapellidgl3


Sono cresciuta a latte e domande.

E non mi riferisco a domande invasive, ma a quelle che ti insegnano a raccontare le emozioni. Quello che gli psicologi chiamano “l’alfabetizzazione delle emozioni”. 

Mi hanno insegnato a decodificare gli stati d’animo e quindi a raccontarli, senza troppo pudore o diffidenza o paura di essere derisa.
Riconosco sempre questa caratteristica nelle persone con cui mi relaziono e la ritengo una risorsa. Trovo che chi sa raccontarsi e denudarsi, pur rischiando di offrire il fianco agli altri, sia dotato di un fascino che merita di essere esplorato.

Tutto questo però ha avuto un rovescio della medaglia, una sorta di scotto da pagare, credo.
Mi ha reso affetta da quella che chiamo “empatia allo stadio terminale” e cioè la difficoltà di gestire il dolore delle persone a cui tengo.
Questa non è affatto una risorsa, non per chi ne è affetto. 
Tendo a instaurare relazioni profonde, non so mantenere a lungo rapporti che restano in superficie, di cordialità amicale. Io devo andare a fondo, devo specillare.
Ma poi accade a volte di lasciare pezzi, rimanere in parte mutilati e certi organi impiegano anni a ricrescere e non sono mai uguali agli originali.

Ecco, ci sono relazioni che scorticano, detto molto brutalmente.

Allora giorni fa ho ripreso delle pagine in cui mi ero imbattuta nella mia adolescenza. Ricordavo l’impatto emotivo che allora ebbero su di me ed ero curiosa di osservare cosa avrebbero suscitato oggi.
Oggi che sono molto simile ad allora, ma anche molto diversa.

I Saggi di Montaigne e in particolare “Della solitudine”.

Vi pregherei di leggere bene, specie se siete affetti dal mio stesso male, perché queste parole, allora come adesso, mi hanno regalato una nuova prospettiva da cui affacciarmi:

“Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo intrattenerci con noi stessi  e, tanto privatamente, che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo; ivi discorrere e ridere come se fossimo senza moglie, senza figli, senza beni e senza servitori, affinché, quando verrà il momento di perderli, non sia cosa nuova farne a meno. Noi abbiamo un’anima capace di ripiegarsi su se stessa; essa può farsi compagnia; ha di che assalire e di che difendersi; di che riceve.re e di che donare. Non c’è cosa migliore al mondo che saper stare con se stessi”.
 (Montaigne, Essais, Libro I, capitolo XXXIX)

Quanta libertà si respira in questi versi.
L’interdipendenza con gli altri che è molto diverso dalla dipendenza. Viviamo in mezzo agli altri, è sano scambiare e darsi e ricevere. Ma “quando verrà il momento, non sia cosa nuova farne a meno”.

 

Ci sono libri che possono insegnare a stare al mondo

 
 
 

Dettagli

Post n°18 pubblicato il 22 Gennaio 2015 da bellicapellidgl3

 

 

Sono ossessionata dai dettagli. E non parlo di dettagli estetici, quella almeno è un’ossessione meno radicata. Lo smalto sbeccato, le doppiepunte, il mascara sulla palpebra, i calzini corti. L’uomo che va in giro stropicciato come un exit poll delle primarie.

Parlo di dettagli mossi da quella intelligenza emotiva che non possiamo sempre governare, i piccoli gesti che sono al di fuori del nostro controllo e quindi una cartina al tornasole dei nostri desideri più profondi.

Detesto i gesti plateali. Suscitano in me la più profonda diffidenza. Le iperboli di parole altisonanti dette dopo tre giorni di conoscenza. Mazzi di fiori puzzolenti che mi danno un’emicrania da rigetto e che finiscono direttamente nel cesto dei rifiuti senza passare dal vaso.

Mi spiego meglio.

E’ estate, potremmo andare in vacanza insieme. Ma lui tergiversa. Io invece voglio essere concreta. Bene. Me ne vado per conto mio in vacanza. Però so per certo che non avrà mai più altre vacanze con me.

“Per me è finita” (e questo glielo comunico al telefono dal mio posto di vacanza).

“Come finita?”

“Eh.”

“Ma per questa storia della vacanza? Mica dirai sul serio?”

“Questa storia della vacanza, come la chiami tu, a me pare una cosa seria”

“Non dire cazzate. Prendo un aereo e ti raggiungo”

Ahahah. Un aereo? E perché non una mongolfiera, un sommergibile o l’astronave di Capitan Harlock già che ci siamo?

I gesti plateali arrivano quando manca la terra sotto i piedi o quando vogliamo puntare un obiettivo e calcoliamo. Sono per quelli che credono in un appeal definitivo, anzi micidiale. E, se vogliamo, siamo capaci tutti.

I dettagli non possiamo calcolarli. Sono gesti istintivi ed io ho un rilevatore sofisticatissimo del dettaglio emotivo.

Dobbiamo separarci però ci si spezza il cuore. Sarà per un breve periodo, lo sappiamo, ma, quando sei innamorato, c’è sempre questa sorta di urgenza, questo non poter fare a meno. Baci. Carezze. E’ il momento.

Cammino verso la mia auto, la mente in subbuglio, il cuore in cantina. Lui si allontana dalla parte opposta. Devo voltarmi a guardarlo (lo so, questo è uno scenario che un uomo giudicherebbe molto melodrammatico, ma tant’è). E lui? Lui si volterà? Questo dettaglio per me vale più di dieci ore di volo per raggiungermi.

E c’è una frase che trovo tra le più belle frasi per dichiarare un sentimento, più di tutti i “ti amo” detti, scritti e pensati del mondo. Non a caso l’ha scritta Marquez (il grande Gabo) ne “L’amore ai tempi del colera”.

Quando, ormai anziani, finalmente i protagonisti si ritrovano e si amano in un letto, a lui che sembra distratto lei chiede ( domanda sempre pericolosa e giurerei formulata per lo più dall’universo femminile, domanda che mette in crisi ogni uomo più di quella “Cosa siamo io e te?”).

Insomma, lei chiede, amorevole: ”A che pensi”.

E rincara:” Sembri altrove”

E lui, attenti bene, dice qualcosa di grandioso:” Ti sto pensando altrove”.

Ovunque io sia con la mente, anche quando tu sei qui vicino a me, in qualunque luogo io possa vagare, ci sarai sempre tu.

Beh in molti uomini questa visione innescherebbe un attacco di panico. Ma in pochi altri no. Mi piace la selezione naturale.

 

 

 
 
 

Le volte che ho preso un aereo

Post n°17 pubblicato il 19 Gennaio 2015 da bellicapellidgl3

 

 

Non ho mai avuto paura di volare. Ritengo molto più rischioso percorrere tutti i santi giorni il grande raccordo anulare. Ho ricordi variegati dei miei voli.

Il primo che mi viene in mente è quello per Sharm, quando ancora si poteva strappare uno scampolo di estate mentre qui era pieno inverno, senza rischiare di restarci secchi.
Ho dormito tutta la notte sulle panche di metallo di Fiumicino perché il volo aveva un ritardo di 12 ore, la gente dava seri segni di nervosismo, ci avevano detto che non era stato pagato il carburante. Una cosa da niente, insomma.
Quando finalmente arriviamo all’aeromobile, sembrava un giocattolo di latta, verniciato di giallo con un faraone nero dipinto sulla coda e una gigantesca scritta inquietante: “Pharaon”.
Prima di attraversare la porta, veniva istintivo tamburellare con la mano sulle pareti esterne, un po’ come fanno gli architetti nelle case (entrano e, prima di parlare, tamburellano sulle pareti e poco ci manca che non facciano dire trentratrè), per rassicurarsi sulla consistenza.
Porte chiuse, tutti seduti, le hostess parlottano e ridacchiano tra loro, ma non si parte.
E lì accade una cosa esilarante, se non fosse che avevo una notte insonne sulle spalle: un tale si alza e chiede di andare fuori a fumare. Tutti lo guardiamo sospesi . Le hostess non battono ciglio, con una certa indolenza riaprono il portellone (!!!) e lo fanno scendere.

Ma che siamo sulla Marozzi?? 

A quel punto si scatena un frignare generale, il nervosismo accumulato esplode e la gente vuole SCENDERE per tornarsene a casa.
Ma come? Hanno già i bagagli nella stiva. E invece pare che in questa specie di astronave Pharaon tutto sia possibile: un gruppetto di persone scende e si mettono pure a recuperare i bagagli.
Ed è a quel punto che la ragazza seduta dietro di me perde completamente le staffe e ha una specie di crisi isterica. Posseduta da un inglese maccheronico comincia a urlare contro le hostess imperturbabili:

It’s impossible! You can’t do it! He says: I want  go out e you say go out! “ E qui alza ancora di un tono la voce e io non riuscivo a smettere di ridere perché tuona: ”MA CHE OUT  e  OUT!!” con gesto eloquente della mano.
E finalmente si parte.
Una vecchietta con un cappello anni trenta, seduta alla penultima fila, pelliccia sintetica, potrebbe essere un’insegnante in pensione, ha l’aria di stare facendo un favore a tutto l’equipaggio a essere lì,  chiede allo stuart:
Mi scusi, eh. Ma questo rumore dovrò sentirlo per tutto il volo?”.
E lui, strepitoso: ”Signora, speriamo di sì!”

 

 

In un volo per Copenaghen invece mi è accaduta una cosa davvero bizzarra.
Un giovane uomo era seduto due file davanti a me, separati dal corridoio. Mi ricordo che in quel volo ho scoperto con sgomento che i passeggeri non erano dotati di un paracadute a testa- come avevo creduto fino ad allora- ma di un salvagente. Non capirò mai come cavolo puoi gonfiare il salvagente SOLO una volta fuori dall’aeromobile. Mentre precipiti nel vuoto deve essere comodo.
Comunque, il tipo a metà volo circa si volta, ci guardiamo distrattamente.
Poi continua a voltarsi con insistenza, fa mezzi sorrisi, insomma una specie di tentativo di acchiappo in un luogo quanto meno inusuale, dal momento che siamo legati a una sedia e nemmeno abbastanza vicini da parlare.
Poi si gioca il suo asso (che detta così, ma mi sembra pertinente): si alza con sguardo ammiccante, si dirige verso il bagno e passando mi fa come un gesto di intesa.

Ora io dico.

Ma davvero esiste gente che si fa una sveltina con uno sconosciuto nel bagno di un aereo in volo, per lo più in fase di atterraggio?
Al suo ritorno, senza aver fatto poker, ricordo che si sedette senza voltarsi più, nemmeno per un attimo. Trovai l’episodio molto istruttivo riguardo al genere umano maschile.

E poi tutti ricordiamo dove ci trovassimo il giorno della tragedia delle Twin Towers. Bene, io, tanto per complicarmi la vita, non ero in Italia, ma a Glasgow.
Intanto questo episodio della mia vita sottolinea, semmai ce ne fosse stato bisogno, l’abisso tra il temperamento pacato e ottimista di mio padre e quello melodrammatico e schizzato di mia madre.

Due telefonate in due momenti diversi, per farmi spiegare cosa stesse accadendo davvero. Mia madre (tono concitato, parole che si portano dietro una specie di eco):” Sta per scoppiare la terza guerra mondiale-e-e-e…. Non potrai tornare a casa-a-a-a-a…. Hanno chiuso Heathrow!!!”
Mio padre:” Ma NIENTE…. Un aereo sul pentagono…due sulle torri gemelle…stai serena” .

Finalmente metto il mio sedere su un volo di ritorno, in quel clima di paura e di controlli. Devo dire che ero piuttosto suggestionata.

Il mio vicino era un obeso che puzzava di alcool, continuava a chiedere vino alle hostess. Il suo culone debordava sul mio posto a sedere ed aveva un odore davvero sgradevole.
Ho intercettato una strana valigetta nera posata per terra, sotto il sedile antistante.

Ho cominciato ad innervosirmi.

Un terrorista che sta per farci saltare in aria e beve per trovare il coraggio! Ero tesa e spaventata, a ripensarci oggi questa cosa mi fa molto sorridere.
E poi il gigante mi parla, biascicando le parole: di dove sei, mi chiede, ah Roma bellissima città, la città eterna bla bla bla. Io non riuscivo a stare ferma, incrociavo le gambe, mi toccavo i capelli, volevo solo uscire da lì.
A un certo punto ha cominciato a straparlare, ha scomodato la storia, Cleopatra, Marcantonio, Giulio Cesare… E dice:

When he was killed…” ma io capisco:”When I was a killer…” (!!!!!) No vabbè, ero completamente fuori di me. E’ UN KILLEEEEER! Lo ha ammesso!! Come se fosse una professione che uno propaganda in giro, insomma.

Partire, il bagaglio, i documenti, il frusciare tra le dita della carta di imbarco, il clima ovattato durante il volo. Partire, quanto mi piace.

 
 
 

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