La voce di un uomo

Lodo Alfano...avevamo ragione noi!


Non mi sono dimenticato del lodo Alfano, ma dissi che avrei atteso la sentenza per scrivere in merito. E la sentenza è arrivata. Questa volta ho deciso di non avvalermi dell'aiuto di articoli dei vari giornalisti come in altre circostanze mi è capitato di fare (vedi i due blog precedenti sul lodo). Questa volta ho letto la sentenza (sì quelle 34 pagine di sentenza) ed ora scriverò da me. Il primo profilo d'illegittimità costituzionale sollevato dai giudici a quo (vale a dire i giudici coinvolti nei processi di Berlusconi), riguardava la violazione dell'art. 136 della Costituzione, il quale afferma, sostanzialmente, un divieto di riapprovare norme già dichiarate incostituzionali. Nella fattispecie i giudici sostenevano che il lodo Alfano fosse una ricopiatura del lodo Schifani e che, quindi, la norma andasse dichiarata incostituzionale per violazione del predetto articolo.Orbene, per smentire tutte quelle voci che accusano la Consulta di essere un organo "politicizzato", la Corte costituzionale ha dichiarato "non fondata" la questione inerente all'art. 136 Cost. La Corte ha infatti affermato che "il legislatore ha introdotto una disposizione che non riproduce un'altra disposizione dichiarata incostituzionale, né fa a quest'ultima rinvio. La disposizione presenta, invece, significative novità normative". Parrebbe assai strano che una sentenza politica dichiarasse non fondata una simile questione, che avrebbe liquidato il dibattito senza troppi giri di parole e che, ad avviso di chi scrive, non sarebbe nemmeno stata così scandalosa, dal momento che appare plateale l'unica intenzione del "legislatore" (unico) di intralciare il lavoro dei magistrati che indagano su di lui. Ma una simile osservazione non è in grado di "sbugiardare" chi accusa la Corte di essere politicizzata, semplicemente fa insinuare un dubbio. Dunque, proseguiamo. Il secondo profilo d'illegittimità costituzionale sollevato con ordinanza di rimessione alla corte attiene, invece, alla violazione dell'art. 138, cioè quell'articolo che prevede un iter aggravato al fine dell'approvazione di leggi costituzionali, impedendo, quindi, che con una legge ordinaria si applichino modifiche al dettato costituzionale. Il termine modifiche va naturalmente inteso in senso lato, vi sono infatti alcune materie che possono essere disciplinate solo da leggi costituzionali e se tali materie dovessero essere disciplinate con legge ordinaria, quand'anche non modifichino espressamente il dettato costituzionale, ne dovrebbe essere decretata l'incostituzionalità."La Costituzione", afferma la Corte, "disciplina i rapporti tra gli organi istituzionali e la giustizia penale". Di per sé, già quest'affermazione è sufficiente a far capire che è la Costituzione, e non il legislatore ordinario, a disciplinare questo tipo di questioni. Tanto più che in questo caso entra in gioco l'art. 3 comma 1 della Costituzione (principio di eguaglianza davanti alla legge). Rileva la Corte che simili norme concedenti un'immunità (intesa in senso lato del termine) "presentano la duplice caratteristica di essere dirette a garantire l'esercizio della funzione di organi costituzionali e di derogare al regime giurisdizionale comune. Si tratta di istituti [...] derogatori rispetto al principio di uguaglianza tra cittadini". Aggiunge poi che "Il problema dell'individuazione dei limiti qualitativi e quantitativi delle prerogative assume una particolare importanza nello Stato di Diritto perché, da un lato, alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione e, dall'altro, gli indicati istituti di protezione non solo implicano necessariamente una deroga al suddetto principio, ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato [...] Questa complessiva architettura istituzionale, ispirata ai principi della divisione dei poteri e del loro equilibrio, esige che la disciplina delle prerogative contenuta nel testo della costituzione debba essere intesa come uno specifico sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali; sistema che non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peius né in melius". Il principio di eguaglianza trova quindi sì delle deroghe che sono motivate da una particolare carica assunta da un cittadino (si pensi, p. es., all'art. 68 Cost. che prevedeva l'istituto dell'autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari e che ora è stato modificato in autorizzazione all'arresto), ma se simili deroghe si potessero attuare con legge ordinaria, il bilanciamento dei poteri tipico dello stato di diritto verrebbe esposto a enormi rischi, facendo pendere la "bilancia" da una parte o dall'altra a seconda delle scelte che volta per volta il legislatore compierebbe. (Un giorno Berlusconi fa pendere la bilancia a favore del governo, un altro giorno va su un'altra persona e la fa pendere a favore della magistratura, ecc.). Perché questo assetto e bilanciamento di poteri sia definito (che non significa necessariamente immutabile, ma quanto meno dotato di una forte stabilità) è necessario che venga disciplinato da un sistema normativo superiore, quale è quello costituzionale. E, aggiunge la Corte, "Tale conclusione non deriva dal riconoscimento di un'espressa riserva di legge costituzionale in materia, ma dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale".Qui entra in gioco però l'obiezione mossa dai vari Gasparri & co. (esemplare, tra l'altro, l'intervento di costui a Matrix, tanto per dimostrare la sua ignoranza del diritto, quando asseriva, per contraddire Marino, che l'omicidio non si prescrive.....) vale a dire il fatto che nella sentenza n. 24 del 2004, quella relativa al lodo Schifani, nulla veniva detto riguardo l'art. 138. A parte il fatto che quest'affermazione non è completamente vera, è pur esatto che in quella sentenza i profili che servirono da parametro per  dichiarare l'illegittimità costituzionale erano costituiti dagli artt. 3 e 24 Cost. Tuttavia, come rileva la Corte, "l'accoglimento di una qualunque delle questioni (nella fattispecie delle questioni relative agli artt. 3 e 24 Cost.), comportando la caducazione della disposizione impugnata, è infatti idoneo a definire l'intero giudizio di costituzionalità e non implica alcuna pronuncia sulle altre questioni, ma solo il loro assorbimento". Ciò significa che se la Corte non prende come parametro di incostituzionalità una determinata norma costituzionale, non significa che la disposizione impugnata sia costituzionalmente legittima in riferimento a quella norma costituzionale, salvo il caso in cui la Corte non dichiari esplicitamente infondata la questione ad essa relativa. E di una simile dichiarazione di infondatezza relativa all'art. 138 Cost. non c'è traccia nella sentenza n. 24 del 2004. E' infatti pacifico che quando una norma viene impugnata davanti alla Consulta per violazione dell'art. x e la Corte dichiara la manifesta infondatezza dell'impugnazione, sia comunque possibile risollevare una questione di legittimità alla Corte con riferimento all'art. y. E questo lo sa qualunque studente abbia dato l'esame di diritto costituzionale, ma la Corte lo ribadisce asserendo che "trova applicazione il principio giurisprudenziale secondo cui le questioni di legittimità costituzionale possono essere riproposte sotto profili diversi da quelli esaminati dalla corte nella pronuncia di rigetto".Dunque: Gasparri & co. SBUGIARDATI. La loro tesi è stata, con uno stile infinitamente superiore, letteralmente fatta a pezzi dalla Corte costituzionale. Il terzo profilo di illegittimità costituzionale attiene, come logica conseguenza, all'art. 3 Cost. che viene violato contemplando, con legge ordinaria, una diversa applicazione della legge per alcune cariche istituzionali. Sostiene in primo luogo la Consulta che "la disposizione denunciata" se, come sostenuto dalle difese della norma, avesse avuto la finalità di garantire un giusto ed equo diritto alla difesa per l'imputato, "avrebbe dovuto applicarsi a tutti quegli imputati che, in ragione della loro attività, abbiano difficoltà a partecipare al processo penale", aggiungendo poi che "sarebbe intrinsecamente irragionevole e sproporzionata la previsione di una presunzione legale assoluta di legittimo impedimento derivante dal solo fatto della titolarità della carica". In sostanza: se a situazioni uguali devono corrispondere uguali trattamenti, perché al ministro che lavora tanto quanto il presidente della camera non deve essere riconosciuto lo stesso trattamento? Di più: come è possibile che si presuma a priori l'impedimento per quella persona a partecipare al processo penale e non si valuti la cosa caso per caso?In secondo luogo la Corte ricorda che "l'esigenza della tutela del diritto alla difesa è già adeguatamente soddisfatta in via generale dall'ordinamento con l'istituto del legittimo impedimento". Chiarito in via preliminare che la ratio della norma non ha nulla a che vedere con il diritto alla difesa dell'imputato, ma mira a proteggere "le funzioni di alcuni organi costituzionali", la Consulta spiega poi come la norma non segua il principio di ragionevolezza dettato dall'articolo 3 (secondo il quale se a situazioni eguali corrisponde eguale trattamento a situazioni diseguali corrisponde diseguale trattamento) poiché "la deroga si risolve in una evidente disparità di trattamento delle alte cariche rispetto a tutti gli altri cittadini che, pure, svolgono attività che la Costituzione considera parimenti impegnative e doverose, come quelle connesse a cariche o funzioni pubbliche (art. 54 Cost.) o, ancora più generalmente, quelle che il cittadino ha il dovere di svolgere, al fine di concorrere al progresso materiale e spirituale della società (art. 4, secondo comma Cost.)". Non si spiegherebbe, dunque, perché l'attività del primo ministro dovrebbe trovare maggiore tutela rispetto a quella di un qualsiasi funzionario dello Stato. La Corte precisa poi che "l'accertata violazione del principio di uguaglianza rileva, poi, sicuramente anche con specifico riferimento alle alte cariche dello Stato prese in considerazione dalla norma censurata: da un lato, sotto il profilo della disparità di trattamento fra i presidenti e i componenti degli organi costituzionali; dall'altro sotto quello della parità di trattamento di cariche tra loro disomogenee". In sostanza la norma capovolge il principio dell'art. 3 facendo corrispondere a situazioni eguali (i presidenti e i membri del rispettivo organo costituzionale) diseguali trattamenti ed a situazioni diseguali (i presidenti delle camere, il presidente del consiglio, il presidente della repubblica) eguali trattamenti. Infatti "non è configurabile una preminenza del presidente del consiglio dei ministri rispetto ai ministri, perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del governo, ma si limita a mantenerne l'unità" ed "anche la disciplina costituzionale dei reati ministeriali conferma che il presidente del consiglio e i ministri sono sullo stesso piano". "Del pari, non è configurabile una significativa preminenza dei presidenti delle camere sugli altri componenti, perché tutti i parlamentari partecipano all'esercizio della funzione legislativa come rappresentanti della Nazione e, in quanto tali, sono soggetti alla disciplina uniforme dell'art. 68 Cost.". Per quanto riguarda invece la diversità delle cariche prese in considerazione dal lodo Alfano la Corte afferma che "tale disomogeneità è da ricondurre sia alle fonti d'investitura (popolare quella dei presidenti delle camere, parlamentare quella del presidente del consiglio e del presidente della repubblica), sia alla natura delle funzioni". Conclude quindi la Corte che "deve dichiararsi l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008, per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 138 Cost., in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90, 96 Cost. (sono gli articoli che disciplinano le deroghe alla normale giurisdizione dei: parlamentari, ministri e presidente della repubblica)".Pertanto...LA CORTE COSTITUZIONALEdichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 23 luglio 2008 n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato);dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008, sollevate dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, in riferimento agli artt. 3, 111, 112 e 138 Cost., con l'ordinanza r.o. n. 9 del 2009 indicata in epigrafe.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2009. Scusatemi ora..ma io...GODO!