Piazza delle Erbe

uno dei nostri


Mi manca solo una conferenza stampa e poi davvero tutti sapranno del mio incidente; incidente che ormai racconto con le stesse parole, le stesse pause, la stessa noia. Ultima in ordine di tempo, la mia padrona di casa. La prima cosa che mi chiede è «Era uno dei nostri?». Io, che in questo buco del culo piemontese sono abituato a identificare azienda e paese, immagino voglia sapere se a tamponarmi sia stato un mio collega. Per non sbagliare, comunque, mi limito a rispondere «In che senso?». E lei «Era italiano?». Mentre biascica qualcosa di razzista, ripenso al mio povero portabagagli, al mio urlo che si spegne nel buio, a quella Fiat nuova di pacco ridotta a mezzo catorcio e a quella biondina di 19 anni, vestita in un improbabile tigrato, che prima si agita terrorizzata fra gli airbag scoppiati, poi trova solo il coraggio di dire che non ha visto una macchina grande il doppio della sua. Rivedo la sua orribile madre orchessa sovrastare un padre succubo, praticamente invisibile; così come rivedo questa versione cattiva di Shrek far piovere due ceffoni dall'alto sulla ragazza come fossero punizioni divine. Sorrido sospeso tra il disgusto e la tenerezza: «Sì, non c’è dubbio, era proprio uno dei nostri».