Piazza delle Erbe

Al ritmo dei suoi pochi denti e delle sue mani sempre in movimento, l'uomo parla di Vasco, accenna una canzone sconosciuta sottolineando i doppi sensi con la mimica, racconta di un tempo in cui anche lui suonava, probabilmente una chitarra, forse un basso, poco più che ragazzino nella band di Franco Cerri. Invece del grande jazzista mi viene in mente l'uomo in ammollo ma sto zitto, perché i ricordi stupidi vengono sempre a galla per primi, come gli stronzi, e lui invece merita tutto il nostro rispetto. Non nasconde nulla: i ricoveri che ha subito, la nipote che chissà se davvero vedrà, il sesso che è solo un ricordo, la condivisione forzata degli spazi con qualcuno che ama/odia. Forse è abituato a raccontarsi agli altri, forse si racconta spesso da solo, oggi comunque ha un pubblico attento. Caffè decaffeinato? Sì, grazie.

Incastrato fra i componenti di un'allegra famigliola in trasferta? Massì, non ho voglia di cercare altri posti liberi, mi siedo. Lui sembra uscito da un film di Pietro Germi, lei sonnecchia, poi dorme definitivamente, la nonna è silenziosa ma dà l'idea di una che, se per caso apri bocca, non ti molla mai più. E poi c'è la ragazza. L'età meglio non chiedersela. Raggomitolata in posizione fetale, labbra morbide, sonno sereno, seno teso in una canotta, gambe forti (pallavolo?) in un paio di shorts, il nome scritto sulle scarpe da ginnastica, qualcos'altro a penna sbiadito sulla coscia destra. Leggo Ammanniti ma l'occhio è lì, voglio sapere cosa c'è scritto, azzurro su bianco. Mi alzo, mi allungo, mi stiro, frugo nel borsone, ma mi muovo cauto, non dimentico Pietro Germi, vorrei evitare un occhio nero o un matrimonio riparatore o tutt'e due, ma niente, non si legge. Poi squilla un cellulare, l'uomo risponde in una lingua sconosciuta, la donna si prepara a scendere da sola, la ragazza si tira su (addio decrittazione) e attacca a spedire sms. Niente allegra famigliola in trasferta, niente Pietro Germi, solo cinque sconosciuti che hanno diviso lo stesso scompartimento. Azz, potevo guardare meglio.

Difficoltà nel riuscire a raggiungersi, nessuna nel capirsi.
Acrobazie verbali
(quanti discorsi da finire? e perché mi ha telefonato la Digos?)
e contorsioni per le risate.
Equilibrismi tra cazzate e serietà.
Abbracci e scarpe e domande e risposte
solo apparentemente fuori sincrono.
Effetti speciali, ma anche no.
Che spettacolo avervi conosciute finalmente dal vivo.

Kuta & Clo' © Piazza delle Erbe 2008

Non potrei mai essere testimone di Geova, vendere aspirapolvere porta a porta o fare telemarketing, ho l'orticaria al pensiero di dover convincere un fan dello psiconano a votare a sinistra o uno juventino che Del Piero fa cacare. In altre parole, non me ne frega nulla di fare proseliti, soprattutto fra sconosciuti. Inoltre, soltanto se amo follemente una persona cerco di convincerla che sono diverso da quello che immagina. E anche quando ciò accade, e tutti i tentativi sono stati vani, e mi sono inutilmente aggrappato con le unghie e con i denti a ogni più piccola speranza, a un certo punto la lancetta vira verso lo zero, io mi spengo e vaffanculo anche a lei.

Incontro finalmente S. e F., due amiche e colleghe che, nonostante lavorino ad appena 4 chilometri dal sottoscritto, non vedo da un secolo. Ho sempre pensato che F., in un'altra dimensione, senza marito e con due figlie in meno, avrebbe potuto diventare l'ennesima F. della mia vita. S. invece, nonostante sia mia coetanea, gioca a fare la sorella maggiore ma, col tempo, è diventata più accondiscendente e ha smesso di bastonare i miei gusti in fatto di donne. Davanti a una piadina schifida, nell'unico bar aperto di questo luglio desertico, parliamo di lavoro, sfighe, viaggi, bambini. Poi, l'idea. Arriva una loro collega e le due diaboliche decidono che devono presentarmela. Mezza terrona mezza esteuropea, sembra interessante ed è la versione giovane di Patti Smith. Mi piace, azzardo un broccolaggio adolescenziale nei dieci minuti che mi separano dal rientro in ufficio, butto lì un invito a cena di gruppo al rientro dalle ferie (sono tutte in partenza, le maledette). Mi rinfilo in macchina. Mentre il gelo dell'aria condizionata lotta senza pietà col caldo bollente delle due del pomeriggio, penso a dove sto tornando. Stavo così bene, appena pochi minuti fa.

Ovvero, per dirla con Lella Costa che doppia da sempre quella stronza di Rivascein, «tirate fuori la sartina che è in voi». È partito come un ricordo familiare, s’è allargato a macchia d’olio. Tutti pazzi per Sentieri? E allora, per la gioia di grandi e piccini, dopo aver fatto serie ricerche via internet, nuntio vobis che Josh e Reva vivono e lottano insieme a noi in quel di Springfield ma che, in questo momento, non sono sposati fra loro. Sì, perché loro sono l’anomalia di una soap in cui solitamente e stranamente ci si accoppia anche con i nuovi personaggi: gira e fai, per quanto trovino altri partner (soprattutto Reva, a dire il vero), alla fine, zammete ’nnu peri malatu, lui e lei tornano sempre insieme. Io, ai tempi, tra i due preferivo Buzz. Buzz l’ex Peter Pan. Buzz lo sfigato redento. Buzz che, tra l’altro, con Reva c’è anche stato. Buzz che era (ed è, immagino) quello che zitto zitto e contro ogni previsione piace a tutte quelle cui non dovrebbe piacere secondo le orride leggi non scritte dei rapporti uomo-donna. Io, se fossi donna o gay, vorrei uno come Buzz. Magari doppiato da quella stessa voce spettacolare di Giorgio Melazzi. Che, tra l’altro, in questo pezzo di Zelig qui, è davvero grande.

È inutile, non riesco a sentire quel nome senza pensare alla faccia smorfiosa di mio padre che si divertiva a storpiarlo mentre guardava il ricciolo biondo più sfigato di Springfield abbandonato per l'ennesima volta da quella stronza di Rivascein nell'ennesima puntata di Sentieri. Ma il Joshua di cui parlo oggi è un bambino terribile, un piccolo mostro di nove anni che, nata la sorellina, impazzisce e manda in pezzi la sua famiglia: se volete farvi passare la voglia di paternità/maternità, andate al cinema a vedere questo piccolo thriller molto, molto inquietante.

Bastano due battute tra amici per ricordare le proprie radici, i motivi per cui non tutto è da buttare, non tutto è Cuffaro e Lombardo, non tutto è servi della gleba e contenti di esserlo. Sono undici lettere: è arricàmpati, che vuol dire «torna a casa» ma anche «vieni qui», perché qui, se vieni, sarà anche un po’ casa tua. Che è poi, da sempre, il mio senso dell’ospitalità. Stasera, nonostante il magone che m'invade, mi sento curiosamente un po’ meno solo.

In fondo sarà mica così difficile scordarti.
O trovare un altro lavoro.
O trasferirsi in un'altra città.
In fondo.

... e già che ci sei, mi dici com’è fatta la felicità, l’ostinazione,
la pelle dura, le vene sottili?
P.S.: mi devi un massaggio!