Sogni d'inchiostro

Post N° 205


Storia di Furio, cane liberoLo presero da un canile di borgata, uno di quei posti assolati, anonimi, tuttaltro che allegri alla vista. Lui era lì da un mese circa, trovato e consegnato da una anziana signora che non si poteva permettere di ricoverare nel suo giardino la decima bestia. Allora era piccolo, nero con una pezza irregolare bianca sul petto. Aveva aperto gli occhi per la prima volta nemmeno una settimana prima. Per la gioia del piccolo Marco il papà glielo fece trovare sul suo lettino, tremante e spaesato. Quando lo vide il piccolo Marco era la personificazione dell’euforia. Sarebbe stato il suo compagno di avventure, come i Zord dei Power Rangers. Doveva essere un animale forte e fedele e quando sarebbe cresciuto lo avrebbe cavalcato come faceva He-Man con Battlecat! “Lo chiamerò Zeus? No… ancora più cattivo! Thunderdog!! No, che schifo. Furia nera!!?? Troppo lungo…furia, furio…Furio! Si, incute timore”. E il piccolo Marco accudì il possente e gracilino Furio come se fosse parte di sé, e quante volte lo faceva mangiare per la fretta di vederlo cresciuto, asciutto e temibile come un Pitt Bull. Ma le domande cariche di apprensione cominciavano a susseguirsi con sempre maggiore frequenza. “ Papaaà ma che razza è? Non assomiglia ad un Pitt Bull” “ Papà perché rimane piccolo?” “ Papaà ma se ci salgo sopra comincia a frignare e non si muove!” E dopo tre mesi Furio si ritrovò sempre più solo. L’attenzione del piccolo Marco venne rapita dalla Playstation prima e dal furetto che gli comprò il padre sempre più schiavo delle voglie del suo unico figlio. A Furio non gli era più permesso entrare nella cameretta del suo padroncino e se in salotto provava a richiamare l’attenzione del piccolo Marco mordendogli il cavo del Joy-Pad riceveva una bella pedata sul muso seguita da parolacce recitate con voce carica di odio gratuito. Dove un tempo si faceva a gara per dargli la pappa osservandolo mangiare con quella boccuccia piccola, dove seguivano sghignazzi quando era costretto a spalancarla tutta per masticare un boccone troppo grande, dove se lo litigavano come tre minatori sfortunati si litigherebbero una pepita, ora c’era l’indifferenza. La ciotola dell’acqua era perennemente vuota, sbuffi e mugugni quando la voce del papà gridava: “ Date da mangiare a questa cazzo di bestia per favore?” e la moglie: “ L’hai preso te sto cane, alzati e daglielo te il cibo che con i soldi dei croccantini e del veterinario mi ero già comprata l’oroglogio della Breil!” e il padre ribatteva stizzito: “ Marco, staccati da quella console e dai da mangiare al tuo amico, l’hai voluta la bicicletta? Adesso pedala, su!” Ed era allora che Furio si accoccolava in un angolo della cucina, a pochi passi dalla ciotola di plastica vuota, perché ormai il copione gli era ben chiaro e tristemente uguale. Il bambino arrivava, gli mollava un calcio, sbuffava mentre gli versava la carne in scatola nella ciotola, gli afferrava il collo e gli ficcava il musetto nella pappa, fino a imbrattargli gli occhi: “ Cagacazzi!” Il mondo era troppo grande per Furio, troppo difficile da capire, dai suoi occhietti osservava quelle persone un tempo amorevoli e ora così lontane, domandandosi se anche fuori da quella casa funzionava così. Se per vivere bisognava non affezionarsi ma essere soli ed imparare a non chiedere, ma ad accettare in silenzio, senza guaiti. I calci facevano male, ma quando veniva la notte e si acciambellava in un angolo della cucina, sulla sua copertina sporca, non erano quelli a togliergli il sonno, ma lo sguardo furente del bambino che un tempo aveva solo carezze per lui. Quegli occhi un tempo abbaglianti di felicità, come due stelle che brillavano ogni qual volta lo afferrava e si faceva leccare il viso. E allora tendeva le orecchie e ascoltava la notte, le sue voci e i suoi rumori, filtrate dallo spiraglio della porta finestra lasciato aperto e protetta dalla grata ben chiusa. In una di quelle notti senza fine scoprì che poteva passare attraverso quella feritoia lasciata distrattamente aperta dalla padrona, scoprì che l’aria notturna era frizzante e invogliante a compiere qualche altro passo. L’erba del giardino era umida e vi si rotolò libero e scevro dagli incubi, rimasti intrappolati dentro le mura della casa. Riconobbe l’albero sotto al quale tante volte il suo padroncino lo aveva tenuto in grembo sussurrandogli che sarebbero stati una gran coppia di supereroi per sempre. Ricordò la luminosità dei suoi occhi mentre pronunciava solenne quelle parole di stima e affetto, occhi di bambino sognatore, splendenti come due stelle, le stesse stelle che ora punteggiavano e tremolavano sopra di lui. In lontananza sentiva abbaiare e passetto dopo passetto si avvicinò al cancello, infilò la testolina attraverso le sbarre e scrutò tutto intorno. In lontananza vide avvicinarsi l’immagine poc’anzi rievocata, due lucenti occhi che facevano il paio con il resto delle stelle del cielo. Gli corse incontro abbaiando in preda ad una esaltazione dimenticata, come quando non smetteva mai di correre tra i piedi del suo padroncino. Quegli occhi erano tornati a brillare. La notte gli aveva restituito quello sguardo carico di amore invano ricercato. E Furio per l’ultima volta corse felice sull’asfalto umido, verso quelle luci che non avevano nulla di umano, ma quando se ne accorse, si voltò ancora una volta verso la casa, ma non fece in tempo ad abbaiare…