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Caso Welby: inammissibile il ricorso.  Piergiorgio Welby, ammalato di distrofia muscolare progressiva in fase terminale, aveva presentato la scorsa settimana un ricorso al Tribunale civile di Roma, perché autorizzasse i medici che lo hanno in cura “all'immediato distacco del ventilatore artificiale, contestualmente ordinando loro di somministrare la terapia sedativa richiesta dallo stato della scienza e della tecnica implicitamente inibendo agli stessi qualsiasi intervento ripristinatore della terapia interrotta”.Welby chiedeva insomma che gli venisse staccato il  ventilatore polmonare che lo tiene in vita, e gli venissero evitate le sofferenze alle quali e' sottoposto nonostante le cure praticategli, senza possibilità per i medici di riprendere la terapia interrotta.I pubblici ministeri Salvatore Vitello e Francesca Loi, avevano reso noto nei giorni scorsi il parere da essi dato al giudice del tribunale civile, Angela Savio, che doveva decidere sul ricorso presentato dai legali di Welby. Essi reputavano ammissibile ed accoglibile il ricorso presentato da Welby, volto ad interrompere il trattamento terapeutico non voluto, con le modalita' richieste. Tuttavia avevano precisato che il ricorso non era invece ammissibile nella parte in cui chiedeva di ordinare ai medici di non ripristinare la terapia, poiché il ripristino o meno della terapia è una scelta discrezionale del medico.Oggi il giudice della prima sezione del tribunale civile di Roma si è finalmente pronunciato sul ricorso Welby, respingendolo.Secondo il giudice, Welby ha diritto a chiedere l’interruzione della respirazione assistita previa somministrazione della sedazione terminale; tuttavia il suo diritto non è concretamente tutelato dall'ordinamento, che non definisce l'accanimento terapeutico a livello giuridico.Nelle motivazioni della sentenza il giudice ribadisce che "è necessaria un'iniziativa politica e legislativa per colmare il vuoto normativo in materia" ed invita pertanto il Parlamento a pronunciarsi sulla materia.Accogliere il ricorso equivaleva a far dipendere dal medico la decisione grande e gravosa –visto il confine assai labile tra decisione e responsabilità- di dover stabilire se fare morire o meno il paziente.Solo una legge può prevenire abusi e discriminazioni e, al tempo stesso, dare una risposta alla disperazione di malati terminali come Welby.Non credete sia giusto che la legge colmi, e in fretta, un vuoto normativo in questa materia, così come ha fatto in passato quando si trattava di definire la “morte cerebrale”?