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Marat il matto


La pioggia non vuol concedere tregua al cielo romano. Un irridente pomeriggio primaverile, vagamente somigliante ad un febbraio riottoso. Sul centrale l'eroe nostrano Simone Bolelli bardato d'azzurro e con la scritta “Italia” sulla maglia, cerca d'ingraziarsi il pubblico. Una specie di ruffianata di regime. Affronta un match possibile (certo), contro il tedesco Kohlshreiber, dal nome impronunciabile ed un pregevole rovescio antico. Defilato, sul campo numero uno, aleggiano mille fantasmi a far compagnia ad una delle ultime comparsate di un altro meraviglioso fantasma deambulante: Marat Safin. Gigante russo. Mica uno qualsiasi. Due slam vinti, altrettanti buttati via, con quella faccia un po' così.Lui, genio sregolato, poco se n'è mai fregato, accontentandosi di rimanere l'incontrastato numero di notti sfrenate, danzerecce ed alcoliche. In quel campo non c'è neppure bisogno di stilare una fredda classifica. Eppure c'è un clima strano, elettrico, ansiogeno e un po' malinconico. Il pubblico non cade nel tranello. Snobba la burattinata prettamente italica, e si assiepa sulle tribune a guardare l'istrione russo. Un ragazzino sui diciotto anni è incuriosito dal vociare e dagli occhi degli “aficionados”. Frementi e preoccupati. Tutti, ovviamente, provati psicologicamente da anni. Un fan di Marat, ne ha viste tante, troppe. E ne vuole ancora. Chiamatelo per masochismo esasperato ed incosciente genuflesso verso il bello.Il ragazzo coi capelli increspati non conosce Marat il matto. Poi però prende posto assieme alla sua fidanzatina, una ragazza con lo sguardo ammirato e curioso. Potere di un fantasma che cammina, capace ancora di calamitare i cuori. Anche di chi nemmeno lo conosce.Provo a riassumergli qualcosa. Due slam vinti in modo epico. Meteora surreale tra due algidi regni dittatoriali. Sampras e Federer. Dimostra di poter essere il più forte di tutti. Cinque ore del più bel tennis dell'ultimo ventennio, in un'epica semifinale agli AO, in cui manda al manicomio Federer, prima che gli desse il colpo di grazia Nadal. E numero uno lo diventa, per qualche settimana. Poi si annoia. Non ha la testa per dedicarsi solo ad una cosa. Non sarà mai Federer, e nemmeno un somaro da fatica come Nadal. Non ha pazienza e voglia di lavorare. Lui è Marat il matto. Donne, notti brave, discoteche, e poi ragazze scatenate. Le mitologiche “Safinette” che gremiscono gli spalti, lanciano gridolini eccitati, pronte a gettarsi nel suo letto generoso. “Io le donne le pago per farle uscire dal mio letto, mica il contrario”, una delle dichiarazioni che raccontano perfettamente il personaggio naif. E poi scenate isteriche, racchette fracassate, partite già vinte e buttate via contro modesti manovali della racchetta, ma dalla mente stabile e volonterosa. Lui, genio sregolato ed instabile, poco se n'è mai fregato di vincere. Una leggenda molto realistica lo dipinge da solo su una panchina, con lo sguardo sbarrato, nell'alba appena spuntata di un'afosa e turbolenta nottata australiana. Dopo l'ennesima notte brava. Di lì a poche ore avrebbe giocato la finale di uno slam. Mica di un torneo rionale di burraco. Gioca, non sta in piedi, ed ovviamente perde. Uno dei più grandi regali della storia di questo sport. Johansson, normale mestierante della racchetta, ringrazia. A Marat poco importa. Poi seguono anni altalenanti, gli ultimi. Infortuni, qualche sprazzo di classe prepotente, molte sconfitte. Troppe. Ognuna con uno psicodramma da raccontare. Tormenti di un cavallo pazzo. Guascone inquieto e tormentato. Scivola fuori di primi cento, si rialza, scende nuovamente. Lo scorso anno sembra quello buono. Dice di essersi allenato come non mai. I tifosi ci credono, s'illudono. Vince ma non se ne accorge. “Gioco partita incontro” ripete l'arbitro. E lui si siede, convinto che manchi ancora un game per chiudere. C'è tutto Marat, in quella istantanea. Più di mille parole, l'affresco del suo essere. Irrazionale, folle, geniale e perdente. Arriva a Wimbledon 2008. “L'erba è buona solo per le capre”, una delle sue battute celebri. Magari un po' inflazionata. A lui l'erba non è mai piaciuta. Non gli da tempo per l'ampiezza del gesto tecnico. Ma lo scorso anno, l'erba è ben rasata, quasi terriccio. E lui si diverte. Batte l'ingessato ed orrido numero tre al mondo Djokovic (perché al mondo c'è un Dio giusto), poi una partita via l'altra, fino alla semifinale persa contro Federer. Quest'anno solite scene, malinconico trascinarsi per i campi. Ha solo ventinove anni, a fine stagione ha già annunciato il suo ritiro. Sconfitte a grappoli a fare il paio con le racchette spaccate in due. Trova la faccia tosta e l'indifferenza di mostrasi sul campo col volto tumefatto e l'occhio pesto, dopo una rissa in un locale, reduce dall'ennesima partita notturna vinta con l'alcool (6-0 6-0 netto). Che gli importa? Lui è quello. O lo si ama o lo si odia. Più spesso tutte e due le cose. I grandi intenditori, continuano a chiedersi avviliti “ma perché continua con questo inutile strazio? Ha già smesso di giocare, e ancora non lo sa.”. Io, ed altri pazzi, ancora non vogliamo rassegnarci. Non siamo così superficiali. Facciamo parte di quella categoria di persone, che della vittoria in se, poco c'importa. Marat qualcosa regala sempre. E' come vedere un film dal finale scontato, ma sempre avvincente nel suo evolversi. Con una trama sempre diversa, una tragicommedia della follia impareggiabile. Ed anche se non lo si vuole ammettere, in fondo al cuore c'è sempre una flebile speranza. Che ci regali ancora un'ultima fiammata vincente d'addio. Una pennellata d'autore. Idealisti ed irrazionali come lui. Dopo l'ennesima sconfitta, la rabbia sfuma e gli si vuole bene comunque. Che beceri tifosi insensibili saremmo nel volerlo un robot programmato per sparare palline gelide? Lo si ama soprattutto perché è diverso dagli altri. Non sarà mai Davidenko o Chesnokov. E' un istrione pazzo. Ci accontentiamo di quello che ha ancora voglia di darci. Pure delle sconfitte.La pioggia rallenta. Ombrelli multicolori, bianchi, bordeoux, si chiudono. Si può iniziare. Il ragazzo pare entusiasta di vedere finalmente questo personaggio mitologico. Un po' crede che gli abbia raccontato fregnacce. Come dargli torto. Mi stipo, un po' teso. Marat, bardato di un giallo sfavillante, comincia bene, sembra persino rilassato. Bello come un adone greco, sotto un cielo di cemento che non può scalfirlo. Serve bene, dritti di controbalzo, e quando uno dei suoi leggendari rovesci lungolinea bacia la riga, la folla si esalta. Lui ciondola col testone, e continua a sparare vincenti come nulla fosse. Dall'altra parte del campo, quasi me n'ero dimenticato, un losco figuro. Uno sparring partner invisibile e fluttuante come l'aria. E' il numero 13 al mondo, mica un ragazzo preso per la strada. Un normale lavoratore dei campi. Tale Tommy Robredo. Rema dal fondo, impotente contro l'uragano russo. Il sorcetto ispanico prova a limitare i danni, rimanda dall'altra parte palline orrendamente arrotate, le rifrulla come l'arrotino di paese. Sfodera tutto il suo mediocre repertorio per restare a galla. Ma non c'è niente da fare, il nostro è in palla oggi. La faccia da guascone è quella dei giorni belli. E continua coi vincenti, uno via l'altro. Lo impallina come l'orsetto delle giostre. Picchia dritto per dritto, e la palla schizza via. Quasi mi fa compassione lo spagnolo crivellatore. Brutto, coi tratti somatici da pantegana rabbuiata, che prova a difendersi strenuamente, impugnando la sua clava artigianale. Al cospetto del gigante russo, bello, scintillante e poderoso, il povero Tommy ora non supera il metro e cinquantadue. Perché la crudeltà di mettere di fronte un peso mosca con un massimo? Viene voglia di chiedersi. Marat vince il primo 6-2. Comincia bene anche il secondo, avanti di un break. Con grande naturalezza. Altro rovescio a sbattere lo spagnolo dove merita. Fuori dal campo. 4-1, con due break di vantaggio. Ora la folla è in delirio. Il cielo regge. Il ragazzino al mio fianco mostra entusiamo: “E' un grandissimo!” Ripete spellandosi le mani. Il suo sguardo quasi mi incolpa di averlo dipinto in modo troppo catastrofico. 6-2 4-1, partita in ghiaccio per tutti. Ma non quando c'è Marat in campo. Impongo attenzione. “Non è finita!” gli dico, e me lo ripeto mentalmente come un mantra. Mi guardo attorno, qualcuno evidentemente la pensa come me. Vedo volti ancora tesi. Saltano alla mente vecchi fantasmi danzanti. Non occorre andare troppo indietro nel tempo. Le ultime due uscite di Marat il matto: Key Byscaine. Opposto al coloured francese Gael Monfils, un top ten. Un ginnasta in canottiera che si piazza cinque metri fuori dalla linea, tira palline smidollate e lascia che l'altro vinca o perda. Insopportabile come un riccio attaccato agli zebedei, il francese. Marat vince il primo, perde il secondo. Schizza avanti nel terzo per 4-1. Poi si spegne la luce nel suo cervello problematico. Si fa recuperare i due break. Spacca un paio di racchette. Si issa al tie-break decisivo. Doppio fallo finale a completare la pellicola. Vince l'osceno francese 5-7 7-5 7-6. Poi due settimane fa, a Montecarlo. Di fronte a lui l'attempato ecuadoregno Lapentti, un tipo dal discreto passato e dal presente impalpabile, fuori dai cento e sul viale di un mediocre tramonto. Safin si fa recuperare un break di vantaggio, e perde il primo set 7-6. Riprende a martellare e domina il secondo per 6-2 e va avanti 4-0. Anche lì, il cervello va in cortocircuito. La solita scintilla impazzita. Si ritrova sotto 6-5 40-0. Salva il primo matchpoint con un miracoloso pallonetto di rovescio in corsa, con la pallina che si lascia morire esangue sulla linea. Miracolo assoluto. Recupera quando nessuno gli avrebbe più dato un cents. Sei pari. Si riaddormenta come un panda furioso, e perde. 7-6 2-6 7-6. Gioco-partita-incontro.Capirete come simili sciagure mi tengano costantemente sul chi va là. Torniamo alla partita. Il russo guasconeggia avanti 6-2 4-1 e servizio. Va a servire, affossa un dritto in rete, smoccola, poi ne sparacchia un altro in piccionaia, poi un doppio fallo. Eccoci. Perde il servizio. Robredo tiene il suo e continua a sgambettare garrulo e di una bruttezza imbarazzante. Mi guardo nuovamente attorno, scruto visi preoccupati. I suoi estimatori lo conoscono bene, completamente assuefatti al maalox, ed alle gastriti nervose. Osservo un attimo il volto di Marat, provo a scorgere la vena della follia in mezzo alla fronte paonazza, che comincia ad ingrossarsi in modo inquietante. E' quello il segnale. “4-3, andiamo! Che sarà mai! E sempre avanti di un break!” Ripete l'ignaro ragazzetto. Potenza dell'inesperienza giovanile. E infatti. Comincia sbagliare l'impossibile, tramortisce un altro rovescio in rete. In un attimo perde il servizio e si ritrova sotto 4-5. Eccolo lì. Puntuale. Se non si complica la vita, che Marat sarebbe? Ora la vena della pazzia è ben evidente, grossa e pulsante. Sbraita, sbuffa, si picchia la testa con le corde, vorrebbe mangiare la pallina, spacca la prima racchetta, matto come un cavallo matto. Il pubblico vuole tenerlo per mano. E lui lo accontenta. In un sussulto d'orgoglio, tiene i due servizi e si rifugia al tie-break: 6-6! siamo nel pieno dell'ennesimo psicodramma. Il russo rende avvincente ogni cosa. Ennesimo errore, altra racchetta spaccata in modo furioso, e set consegnato all'incredulo sorcetto spagnolo, che si è solo limitato ad osservare lo spettacolo autolesionista, continuando a frullare orride palline dall'altra parte. 6-2 6-7. Tutto da rifare. Guardate la sua faccia in alto nella foto. Occorre scrivere altro? Mi tocca.Sugli spalti, qualcuno scruta il cielo. Invoca la pioggia con gli occhi. Il vento discreto smuove qualche gocciolina dagli alberi maestosi. Ma il cielo regge, al contrario della testa di Safin. Altri fan provati, ingollano gocce di ansiolitici in modo furtivo. Il ragazzo continua a chiedersi: “Ma come si fa??”. “Ben venuto nella giostra di Marat il matto!” Lo ammonisco con un pizzico di sadismo. Io oramai sono abituato a quella masochistica giostra dell'orrore. Ansiogena, irrazionale, coinvolgente malgrado tutto. Comincia il terzo, cosa avrà voglia di fare? Che penserà in quel testone ciondolante? il set decisivo comincia come si era chiuso il secondo, una lenta agonia. Raccapricciante ed inspiegabile. L'insipido spagnolo ora appare baldanzoso, un cadavere rimesso in vita. Come se lui c'entrasse qualcosa con la partita (con il tennis, e con la vita in genere). Sembra pure più alto, d'un colpo. Marat perde un servizio. Altro doppio fallo, diritacci sparacchiati via, a morire rabbiosi e frustranti, fuori dal campo. Il gigante d'argilla scrolla la testa, comincia qualche monologo rassegnato, maledice i fantasmi dispettosi che danzano e banchettano nel suo cervello. Perde pure un altro sevizio. Il pubblico è commovente, vuole spingerlo all'ennesima rimonta. Niente da fare. 6-2 in carrozza per Robredo el torpe. Il ratto rachitico rotea i pugnetti e passa il turno, Marat a testa bassa esce dal campo tra gli scroscianti applausi del pubblico. Robredo continuerà. Lui si ritirerà. Qualcuno può vederci una spiegazione? La bruttezza invade il mondo, in modo impietoso. L'ultima comparsata romana poteva essere diversa. Poteva vincere, ha perso. Come mille altre volte. Ma sarebbe stata meno credibile e vera. Infila qualche racchetta fracassata nel borsone. Saluta con un gesto imbarazzato, quasi vergognandosi di quell'applauso inatteso, che gli regala il pubblico romano. E se ne va, con quella faccia un po' così. Dopo tutto, Roma di notte potrà offrirgli altre platee in cui dimostrare di essere il numero uno assoluto.