gemini

Attaccato al muro insieme all'ombra. XXXIII.


Arrivammo che era pomeriggio inoltrato. Non avevamo realizzato quanto il lutto dilata i tempi e quanto i minuti trascorrano veloci neldolore. Parcheggiammo e mi venne da riflettere sul fatto che miopadre stava conducendo la sua personale battaglia contro la morte ai piani alti mentre mia madre aspettava riconoscimento e sepolturanegli scantinati. Attraversammo il piazzale sotto il diluvio e mi informaiall'abituale reception. Ci diedero tutte le indicazioni con espressionicontrite sul volto e finimmo con il camminare nella direzione disegnatadalle frecce dipinte a terra. Ci capitò di perderci qualche volta, ma, con l'aiuto di alcuni infermieri, alla fine giungemmo davanti alla sezionemortuaria. Le porte erano di solido acciaio e l'odore di formaldeidedominava l'aria lasciando me e Danilo sterili come due placchette di metallo. Bussai, ma l'effetto era quello di un topo che gratta all'entratadi un maniero. Decisi di girare la maniglia e accedere ma fui subito bloccato da un urlo repentino che mi gelò il sangue. "Chi siete?Attendete fuori di essere chiamati!" Fu la brusca interlocuzione. Ioaccostai la porta intimidito e lasciai gli addetti vestiti di azzurro continuare la loro attività. Ci sedemmo su alcune immense panchegrigie che giravano tutt'attorno all'ambiente. Lì attesi con la testa che mi girava e il battito cardiaco che pulsava a mille. "Ce l'hai dietro un calmante?" Feci al mio fratellastro. Lui estrasse dalla tasca un sacchettopieno di pastiglie e mi passò un nozinan intero. "Forse è troppo". Sospirai."Non credo. La situazione è particolare." Gli diedi mentalmente ragionee ingollai la pasticca senz'acqua. Non mancò di fare effetto: una sensazionepesante di sonnolenza mi avvolse tutto e mentre parlottavo con lui miaccorgevo che la bocca si impastava e le parole fuoriuscivano lentissimee strascicate. Provai ad alzarmi in piedi e a camminare per l'immensa sala, ma trascinavo i piedi e procedevo come una tartaruga, facendo benattenzione a non oscillare troppo. "Che cazzo è questa roba?" Protestai con Danilo. Lui nemmeno mi guardava. "Un antipsicotico molto potente."Disse. Io continuavo a camminare come un cavallo col paraocchi e non mi accorgevo del tempo che passava. Potevano essere ore quanto minuti. Alla fine sentì con la coda dell'orecchio che ci stavano chiamando. Unaddetto azzurro ci faceva cenno dall'enorme portone in acciaio. Il mio battito era rallentato e il mio cervello era avvolto nella bambagia. Entrammoche distinguevo a malapena la mia missione: la pena s'era affievolita ela tragedia era solo un rumore di fondo che bussava alla parte posterioredel mio cervello. Vidi unicamente una lunghissima fila di sportelli alla mia destra, l'ambiente era asettico e chirurgico e il tizio in azzurro con una cartella in mano si diresse verso il loculo 44, afferrò la maniglia e fece scorrere la tavola. Doveva essere mia madre, coperta da un telo biancosopra la sua tradizionale, robusta figura. Il tizio abbassò il telo dal visoe la vidi. Perfettamente composta e compunta, con gli occhi chiusi e illabbro inferiore solo lievemente sporgente. "Sì, è Lei." biascicai dopoun tempo che mi parve eterno. L'addetto la coprì nuovamente con cura e professionalità, poi disse: "Ci sono i suoi effetti personali in quellabusta (E indicò un punto lontanissimo su un tavolaccio di zinco). sietepregati di ritirarli." Annuì e mi mossi verso il punto ma caddi in ginocchiocon un filo di bava che mi usciva dalla bocca. Il nozinan stava pestando duro e mi travisava le distanze e le proporzioni. Mi raccolsero che eropiù bianco dei cadaveri.(Continua)