gemini

Attaccato al muro insieme all'ombra XXXVI


 
Mi ripulii lo sporco dell'asfalto e tentai di mantenermi eretto mentre cercavo la mia automobile in mezzo alle poche che erano rimaste.Avevo le gambe come bambagia e delle nuvole fitte ficcate propriodentro al cervello. Tentavo di orientarmi ma oscillavo e impiegavotroppo tempo a fare pochi passi. Al termine, dopo un tempo indefinito,toccai la carrozzeria della mia automobile e mi ci aggrappai, stremato.Salì al posto del guidatore e rimasi per qualche attimo intirizzito e stravolto. Il pensiero di Danilo che mi cacciava dalla stanza di miopadre mi faceva ribollire il sangue, così come il trattamento che avevoricevuto da parte del personale infermieristico. Girai la chiavetta di accensione e misi in moto pur non sentendomi fisicamente in gradodi condurre il mezzo. Ma l'importante era lasciare il mio fratellastroa piedi. In qualche maniera riuscì a distinguere il dedalo di viuzze cheportava fuori dalla clinica e mi avviai, poi, su strade più ampie e percorribili. La sedazione non riusciva ad arrestare il bruciore dell'umiliazione subita e mi conduceva verso casa lasciando alle spalle Danilo, che avrebbe penato non poco per trovare un bus che lo lasciasse dalle mie parti. Era una vendetta forse stupida ma moltoappagante e mi sentivo incendiare dall'eccitazione per la rivalsa sulfratellastro che mi aveva trattato come una fastidiosa zanzara sul viso del padre. L'avrei ripagato con la stessa moneta e avrei messo inchiaro i rapporti gerarchici all'interno della casa. Quello era l'appartamentodei miei genitori e lui era solo un ospite tollerato a malapena. Non avevanessun diritto di alzare la cresta. Con l'incombere del buio parcheggiaisotto casa e salì le scale. La sedazione si stava attenuando e mi chiesise tanto dello spirito angelico di Danilo non fosse dovuto alle pastiglieche ingurgitava. Avevo sperimentato sulla mia pelle la potenza di quelconcentrato chimico e la sua resistenza al trascorrere delle ore. Entraie non accesi le luci; mi ricordavano l'obitorio dove mia madre stava ora a riposare in una delle cellette apposite. Le luci violente sono fatte appostaper scassare il cervello e dislocare la riconoscibilità dei luoghi e dei sentimenti. Entri in posti simili come un pezzo di ghiaccio ed esci pezzo di metallo. Così a tentoni trovai il divano e mi raggomitolai alla ricerca di un atollo dal quale potessi vedere il mare della disgrazia che mi circondava.Ebbi comunque un'illuminazione e andai a prendere il mozzicone di una candela. Lo misi in sicurezza e accesi. Così come il suono della svegliaanche l'odore della cera mi riportava a una sensazione di serenità esicurezza. Fissavo rapito le ombre che il mozzicone disegnava sul muro,oscillando fra brutte grinte e visioni infantili pacifiche e affettuose, poi mi incantavo a non staccarmi dalla fiammella, che sorgeva impetuosa sottoi miei occhi e rifletteva un mare galattico in fiamme, un universo fatto ancora di sogni e incubi da decenne. Mi gettai addosso il giaccone sul divano mentre stavo appisolandomi. Danilo era lontanissimo. sotto una pioggia che si era fatta nuovamente torrenziale, senza ombrello (entrambierano nel mio bagagliaio), sperso e spaurito. In quei precisi istanti mi augurai che morisse, che venisse ingoiato dalla notte periferica e cadessein crisi di panico con conseguente infarto. Questo provai prima di svegliarminel dolce mattino con la faccia del fratellastro a pochi centimetri dalla mia.(Continua)