Quid novi?

Gaetanaccio


Ho già parlato, in un vecchio post su altro blog, di "Ghetanaccio", basandomi sulle notizie che su di lui offre Giggi Zanazzo. Ho ora trovato su "Il Volgo di Roma raccolta di tradizioni e costumanze popolari" a cura di Francesco Sabatini (E. Loescher, Roma, 1890, pagg. 9 e seguenti) un brano di Filippo Chiappini molto bello e interessante, ricco di particolari sulla vita del famoso burattinaio Gaetano Santangelo, detto Ghetanaccio o Gaetanaccio (Roma, 1782 - Roma, 26 giugno 1832). Data la lunghezza del brano, sono costretto a suddividerlo in due post.In una botteguccia di caffè, dove io capito qualche volta, vengono la sera alcuni vecchi popolani, romani di Roma, i quali, sorbito il lor gotto, si trattengono quivi a far conversazione finché vien l'ora d'andarsene a letto. A sentire le loro chiacchiere c'è da fare le matte risate. Se fra loro cade il discorso su qualche benefattore dell'umanità, che presta il denaro all'un per cento.... la settimana, essi borbottano fra i denti: «Ce vorebbe Ghetanaccio pe' ddaje 'na lezzone, comme se la merita!» Se parlano di un impiegato, magari d'un usciere, che avanza di grado per intercessione di san Martino, essi da capo: «Ce vorebbe Ghetanaccio pe' mmette in piazza quela robba che pporta in fronte!» Così se discorrono di padroni di case, che ad ogni scadenza rincarano il fitto agli inquilini; di venditori di commestibili, che fanno ballar la stadera quando incontrano il compratore inesperto; d'osti ribaldi che vendono un vino che non è vino, torna sempre sulle loro bocche il nome di Gaetanaccio: «Ce vorebbe lui pe' ddaje 'na susta; ce vorebbe lui pe'cconsolalli. Ma nun c'è, rimedio, Ghetanaccio è mmorto, e un antro uguale nu' ne vie' ppiù». Avendo io nella sopraddetta bottega udito ripetere le mille volte cotesto nome di Gaetanaccio nei discorsi di quei popolani, mi venne voglia di saper chi egli fosse, e cosi fu che mi diedi a cercare le sue memorie, e mi venne fatto di trovarne qualcuna. Gaetano Santangelo, conosciuto col nomignolo di Ghetanaccio, era un burattinaio che visse in Roma tra la fine del secolo passato e il cominciare del nostro. Nato in Borgo Vecchio, all'ombra della gran cupola, da una coppia di genitori che stavano a quattrini come sant'Onofrio a calzoni, egli andava girando per la città, recandosi sulle spalle un castello di legno, o, come si dice, un casotto, nel quale, con certi mostricciattoli, che si fabbricava da se stesso, dava in piazza le sue rappresentazioni. Il popolo stava ad ascoltarlo a bocca spalancata. Egli sapeva imitare tutte le voci, non che degli uomini, ma anche degli animali; sapeva recitare tutti i dialetti, sapeva parodiare tutti i linguaggi, sapeva trovare in ogni cosa il lato ridicolo; se fingeva di piangere, il suo pianto pareva vero; se rideva, bisognava rider con lui. Ma ciò che soprattutto lo rendeva gradito erano le satire, le arguzie e le facezie che gli germogliavano sulle labbra, senza che l'una aspettasse l'altra. Con queste droghe egli condiva le sue commediole, che componeva da se stesso, e recitava a soggetto, desumendone gli argomenti da scandali o da pettegolezzi, che gli venivano raccontati, o da fatti di cui egli stesso era stato testimonio e, spesse volte, anche parte. Il suo casotto era una gogna, sulla quale egli metteva in ridicolo ogni sorta di persone. Nessuno, che avesse un debito da pagare al popolo, poteva sottrarsi alla sua mordacità, nemmeno il Governo, contro il quale lanciava spessissimo le sue satire, senza curarsi del danno che gliene potesse sopravvenire. Lo menavano in prigione? Egli ci andava volentierissimo, pur di levarsi il ruzzo dal capo. Il suo personaggio principale era Rugantino, maschera romanesca, della quale non veggo far motto né dal Muzzi, né da altri, che hanno scritto delle maschere italiane. [NOTA: Recentemente ne parlarono: Mezzabottìi, Il congresso delle maschere italiane in Roma, p. 18; Sabatini, Spigolature, p. 51] Rugantino è la caricatura dello sgherro romanesco. La sua figura è oltremodo ridicola: statura bassa, testa grossissima appiccata sopra un busto tozzo e scontraffatto, braccia sottili, mani somiglianti a pale di remo, con cui potrebbe allacciarsi le scarpe senza inchinarsi, gambe tisiche come le braccia, inarcate all' indietro in forma di O, natte disseminate in tutta la persona. Veste una giubba di panno rosso con falde corte a coda di rondine, corpetto e calzoni corti dello stesso colore, scarpe con fibbie, cappello altissimo a forma d'incudine, ai fianchi una fascia nella quale porta infilati due coltellacci. Rugantino mostra nel suo vestiario che la sua schiatta non può vantare l'antichità di Pantalone e del Dottor bolognese, e ch'essa risale appena al principio del secolo scorso. Egli parla il vernacolo romanesco, e ogni tratto ripete l'esclamazione: «Sangue d'un dua!» Sempre minaccioso, dice che gli uomini gli paiono mosche, che con un pugno sfonda il cielo, con un calcio subissa la terra; ma poi.... non c'è poltrone che, mostrandogli i denti, non sia capace di spolverargli la schiena. Per conoscere meglio il carattere di Rugantino, bisogna vederlo in una scenetta di Gaetanaccio. Rugantino sta in cantina; vien uno, e lo chiama: - Rugantino! - Chi mme vò'? - Vie' ssu. - Nun posso. - Vie' ssu, tte dico. - Nun posso: sto a vvotà' er vino. - C'è uno che tte vò' ddà' 'na cortellata. - È ggiovene o vvecchio? - È ggiovene. - È arto bbasso? - È arto: pare un gigante! - Ècchime che vviengo. Rugantino vien fuori, e trova un romanesco che, appena lo vede, gli salta addosso e gli dà un carico di legnate. Rugantino grida, piange, si raccomanda, e finalmente cade per terra mezzo tramortito. Rimasto solo si alza, si scuote come un cane uscito dall'acqua, ed esclama con voce minacciosa: «Si mme n'accojeva una, ridémio!» Gaetanaccio introduceva nelle sue commedie anche il Pulcinella, dandogli la parola per mezzo della pivetta, strumento usato dai burattinai, quando non fanno parlar Pulcinella in dialetto napoletano. La pivetta è formata da due pezzi di latta riuniti da un cordone, attraverso ai quali passando la voce, acquista un suono stridulo e ridicolo, somigliante al chiocciare di una gallina. Sebbene Gaetanaccio fosse abilissimo nel cacciarsi in gola e ricacciarne cotesto strumento, pure accadde più d'una volta che il medesimo gli s' incastrò nelle fauci, talché per estraglielo, dovette ricorrere all'opera del chirurgo. Com'egli da sé solo recitava tutte le parti, cosi da sé solo reggeva e muoveva tutti i suoi burattini, talvolta cinque o sei insieme, con tanta maestria, che quei mostricciattoli tra le sue mani sembravano uomini vivi. Bastava vedere una loro mossa per isbellicarsi dalle risa. Quando Gaetanaccio attraversava le vie della città col suo casotto sulle spalle era un correre, un affollarsi di gente da tutte le parti. Al suono della sua pivetta si fermavano non solo gli artigiani, i rivenduglioli, i carrettieri, ma anche le persone della più civil condizione. L'accigliato causidico, il severo esculapio, il superbo professore di lettere non avevano difficoltà di mescolarsi fra i suoi uditori. Perfino i signori, i signori di baldacchino, fermavano spesso le loro carrozze pel gusto di assistere alle sue rappresentazioni. I suoi motti passavano di bocca in bocca, e molti di essi si ripetevano anche nelle conversazioni di persone per bene: dico molti e non tutti, perchè il suo linguaggio, bisogna pur dirlo, era alle volte improntato da una certa libertà aristofanesca, che non poteva apprezzarsi da persone costumate, che avessero un culto pel galateo. Non senza perchè il basso popolo lo chiamava col nome di Gaetanaccio. Comunque sia, una gran parte delle sue arguzie avrebbe meritato di esser raccolta, e se alcuno ci fosse stato che avesse fatto questo lavoro, noi avremmo adesso un grazioso volume che, pel suo genere, potrebbe stare a paro con le Scaramucciane di Tiberio Fiorilli, e coi Brighelleschi di Atanasio Zannoni. Io ho udito raccontare alcune delle sue scene e delle sue facezie da quei vecchi popolani che ho nominato pocanzi; e sebbene essi dicano che non sono delle migliori, pure mi piace di riferirle per dare un'idea del carattere di cotesto romanesco, che fu il sollazzo dei nostri nonni. Gaetanaccio andò una mattina a comprarsi due baiocchi di salame in una pizzicheria posta sulla piazza di San Carlo al Corso. Quel pizzicagnolo, abituato alla frode, lo servì così male, che non gli diede nemmeno la metà di quel che doveva. Gaetanaccio stizzito gli promise di fargliela scontare. Dopo alcune ore egli tornò sulla medesima piazza e piantò il suo casotto avanti alla pizzicheria. Suona la pivetta, s'affolla la gente, si alza il sipario. Esce fuori Rugantino piangendo dirottamente perchè, essendogli nati tre figli, una zingara gli ha predetto che il primo di essi deve ammazzare, il secondo dev'essere ammazzato e il terzo deve fare il ladro. - Poveri fiji mii, grida Rugantino, tutt' e ttre hanno d'annà' a ffini' mmale!... Mentre Rugantino sta singhiozzando, gli comparisce un Genio, un burattino con due ali di gallina, il quale gli dice: - Rugantino, non piangere, se tu darai ascolto alle mie parole, i tuoi figli finiranno bene. - Da vero, sor coso mio? Parlate, sbiferate, ch'io ve sto a ssenti' co' ddu' parmi d'orecchie. - Il primo de' tuoi figli è inclinato ad ammazzare? Mettilo a fare il medico, così seconderà la sua inclinazione, e nessuno gli dirà niente. - Sangue d'un dua! Che bella pensata! È vvero, sa', li medichi ammazzeno, e gnisuno li manna in galera. - Il secondo dev'essere ammazzato? Mettigli un fucile in spalla, mandalo a combattere per la patria, e così morirà onorato. - Bene! Benone! Questa puro me piace. Accusì quer povero fijo farà vvede' ar monno che ccià 'n de le vene er sangue de su' patre. Ma er terzo, sor coso mio, er terzo ch'ha da fa' e' lladro, camme l'accommidamo? - Mettilo a fare il pizzicarolo, e ruberà a man salva. - Oh cche omo, oh cche omo, che ssete voi! Avete raggione. Que' lladraccio llà incontro, che mme sta a gguardà', stammatina pe' ddu' buecchi de salame, me n' ha ddate du' lesche, che ssi' ammazzato! A questa scappata i popolani, che attorniavano il casotto, proruppero in una salva di fischi all'indirizzo del pizzicagnolo, il quale, quatto quatto, si ritirò in bottega e si chiuse dentro, temendo di esser preso a sassate. Nel 1823, quando i Francesi andarono in Ispagna per rimettere sul trono Ferdinando VII, venne in Roma la notizia che, appena comparsi, essi avevano riportato una solenne vittoria sui ribelli spagnuoli, e li avevano costretti a deporre le armi. L'ambasciatore di Spagna, ch'era qui in Roma presso la Corte pontificia, gongolando dalla gioia, fece cantare il Te Deum nella chiesa di Monserrato; ma, che è, che non è, dopo alcuni giorni si venne a sapere che quella notizia era falsa, e che i Francesi, anziché una vittoria, avevano avuto una sconfitta. Gaetanaccio, lesto come un razzo, si presentò sotto il palazzo dell'ambasciata di Spagna, e improvvisò una commediola. Egli immaginò che Rugantino avesse una serva per nome Vittoria. Mentre questa stava in cucina ad attendere alle sue faccende, veniva Pulcinella e scaricava su Rugantino una tempesta di bastonate. Rugantino, colto all'improvviso, non sapendo a chi raccomandarsi, andava girando per la scena gridando: «Vittoria! Vittoria!» La graziosa trovata del burattinaio piacque ai liberali, e fece torcere il naso ai codini. Quando Leone XII emanò l'editto che ordinava agli osti di porre un cancelletto sulle porte delle loro botteghe, talché nessuno potesse entrarvi e trattenersi a bere, Gaetanaccio rimase sconcertato, non sapendo più dove passare le sue ore d'ozio. Egli allora la prese col papa. Da quel momento, in tutte le sue commedie, Rosetta altercava con Rugantino, e gli diceva tutta arrabbiata; «Coraccio de leone! coraccio de leone!» Dagli oggi, dagli domani, i birri capirono l'allusione, e portarono il burattinaio in domo Petri, dove son le finestre senza vetri. Rimesso in libertà, egli si guardò bene dal ripetere quelle parole; ma, morto il papa, tornò da capo. - Coraccio de leone, diceva Rosetta a Rugantino, coraccio de leone, mo' cche lo posso di'. Inviperito contro un giudice, che lo aveva fatto stare al fresco parecchi giorni, per alcuni motti pronunciati contro il Governo, appena uscito dal carcere andò a dileggiarlo avanti la sua casa. Rugantino faceva da giudice. Entrava Rosetta per presentare una querela. - C'è il giudice? - Ecchime qua. Nu' mme vedete? - Ah! Ah! Voi siete il giudice? E chi vi ci ha fatto? - Chi mme cià ffatto e echi nu' mme cià ffatto, a vvoi nun v'ha da interessà'. So' er giudice. - Guarda lì, chi hanno fatto giudice! Un somaro cacato e vestito. - Dico, sora sposa, stam' attenta come parlamo, sinnó fo un fischio e vve fo mette in catorbia. - Avete ragione, scusate.... - E vve fo ttajà' la linguaccia.... sangue d'un dua! Così dicendo, Rugantino veniva sul davanti della scena, e gonfiandosi come un tacchino soggiungeva: «Che bella cosa! Ieri stavo a piazza Navetta a vvenne' le callalésse, e oggi?... so' ggiudice!».Filippo Chiappini.(continua)