Quid novi?

Villa Gloria 01-05


Villa GloriaSonetti in dialetto romanesco, originali, — che dopo il Belli pare impossibile, — ha trovato modo di farne Cesare Pascarella. Già in quelli del Morto de campagna e della Serenata diè a divedere anni addietro la potenza che aveva a intuire e rendere la verità austera. In questi di Villa Gloria il Pascarella solleva di botto con pugno fermo il dialetto alle altezze epiche.Tutto qui è vero: non è il poeta che parla, è un trasteverino che vide e fece: per ciò l'epos nasce naturale e non per convenzione, nella forma dialettale. Il trasteverino è uno egli stesso, ripeto, dei settanta; ha quindi un animo quale ci bisognava alla gran gesta; ha la osservazione profonda e sicura, per quanto commossa, delle cose e degli uomini; ha il cuore risoluto e pietoso: senza descrizioni, senza divagazioni, senza fantasticherie (ché non c'era tempo) ma tenendo conto di tutti i particolari (ché a tutto si doveva badare per vincere o per morire bene, un gruppo com'erano), egli racconta; e nella lontananza di diciotto anni l'ardore rimeditato e risentito dell'animosa sua gioventù gl'illumina del bagliore d'una fantasia severa il racconto; e in quel racconto, nel cospetto di Roma, fra il Tevere e l'Aniene, in quella campagna, con quei nomi, a quella stagione, dalle concitazioni del duro e muscoloso linguaggio la linea epica si solleva e si distende per i venticinque sonetti monumentale. Non mai poesia di dialetto italiano era salita a quest'altezza. Grandissima l'arte e la potenza del Porta e del Belli, ma in una poesia che nega, deride, distrugge: classica quanto si vuole l'arte del Meli, ma fuor della vita, in una Arcadia superiore. Scolpire la idealità eroica degli italiani che muoiono per la patria, con la commozione d'un gran cuore di popolo, con la sincerità d'un uomo d'azione, in poesia di dialetto nessuno l'aveva pensato, nessuno aveva sognato si potesse. Ho caro che la prova sia riuscita a questi giorni che paiono di abbassamento e che l'abbia fatta un romano.1º luglio 1886.Giosuè Carducci. A Benedetto Cairoli.I.A Terni, dove fu l'appuntamento,Righetto ce schierò in d'una pianura,E lì ce disse: — Er vostro sentimentoLo conosco e nun c'è d'avé pavura;Però, dice, compagni!, v'arimmentoChe st'impresa de noi nun è sicura,E Roma la vedremo p'un momentoPe' cascà' morti giù sott'a le mura.Pe' questo, prima de pijà er fucile,Si quarcuno de voi nun se la senteLo dica e sorta fora da le file.Dice: non c'è gnisuno che la pianta? — E siccome gnisuno disse gnente,Dopo pranzo partissimo in settanta.Nota: che la pianta = che abbandona l'impresaII.E marciassimo fino a la matinaDer giorno appresso. Tutta la nottata!A l'arba poi, fu fatta 'na fermataSu l'erba zuppa fracica de brina.Traversassimo un fiume de rapina,Lassassimo la strada, e traversata'Na macchia, se sboccò su 'na spianataE venissimo in giù pe' la Sabina.Dove che dietro a noi c'era pe' scortaN'onibussetto tutto sganghenato,Dov'uno ce montava un po' pe' vorta.Pe' strada er celo ce se fece cupo,E venne l'acqua che nun ci ha lassato,Finché non semo entrati a Cantalupo.Nota: fiume de rapina = torrenteIII.A Cantalupo, drento a 'na chiesolaRighetto ce divise in tre sezione,E dopo avecce letto l'istruzione,Fece: — Ripeto n'antra cosa sola:Si fra voi c'è quarcuno che ciriola,Lo dica e nun se metta soggezione.—  Gnisuno arifiatò. Fece: — Benone!Vedo che sete tutti de parola.Ma perchè non ce sia gnisun intoppo(È inutile a sta' a fa' mezze parole)S'io morissi c'è l'antro che viè' doppo. —E lì de novo tutti in marcia.Arfine, Caricassimo tutti le pistoleE a Corese passassimo er confine.Nota: che ciriola = che tentennaIV.E a l'arba, mentre c'era un temporale,'Rivorno da Firenze li cassoniDove c'erano drento li foconiDe quelli de la guardia nazionale.Furno depositati in d'un casaleE dopo, assieme a l'antre munizioni,Li portassimo drento a du' barconiPresi da 'n capo-presa padronale.Fatto er carico, sopra a 'gni barconeCe fu messa la legna e fu ridottoCome quelli che porteno er carbone:In modo ch'uno nun capisse gnente.Poi dopo s'accucciassimo de sottoE venissimo in giù co' la corrente.Note:foconi = fucili vecchi, arrugginiti.capo-presa = padrone dei barconi che navigano nel Tevere.V.Avanti a tutti, drento a 'na gozzetta,Come stassero lì a guardà' er carbone,C'ereno li Cairoli de vedetta;E noiantri giù a fonno ner barcone,Sentimio da la riva la trombettaDe le truppe der papa! A Teverone,Verso notte, se scense e 'gni sezioneFu dislocata drento a 'na barchetta.E m'aricordo ch'una era tarlataE che cór sego e co' li stracci pistiLì su la riva fu calatafata.Dopo annassimo da li doganieri,Li legassimo tutti come Cristi,E furno fatti tutti prigionieri.Cesare PascarellaTratto da: "Sonetti", Nuova ristampa, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Roma-Torino 1906