Quid novi?

Il Dittamondo (1-03)


Il Dittamondodi Fazio degli Uberti LIBRO PRIMO CAPITOLO III Entrati nel suo povero abitacolo, sarebbe lungo a dir le cose strane che mi contò d’uno e d’altro miracolo. La cena nostra fu solo acqua e pane e, letto, d’orso una pelle pilosa; 5 e cosí stemmo in fine a la dimane. Era la mente mia grave e pensosa,volendo ricordar ciascun peccato, che fatto avea ne la vita noiosa, quando quel padre, ch’era giá levato 10 per dir sue ore, mi disse: "Che hai, che sí sospiri e mostri tribulato?" "Ho, rispuos’io, che ho peccati assai dubbiosi e gravi". E poi mi tacqui apresso e nel tacer languendo lagrimai. 15 "In questo tuo cammin se’ tu confesso?" Rispuosi: "No; e trovandomi vosco questo era quel di ch’io piangea adesso". "Figliuol mio, disse, il mondo è come un bosco pien di serpenti e di fieri animali 20 e ciascun porta isvariato tosco. E noi siam tutti mobili e mortali: onde vegliar convene e stare attenti, per saperne guardar da li lor mali. Se il primo nostro e de’ nostri parenti 25 padre avesse proveduto a questo, noi viveremmo liberi e contenti. Ma di’, ch’ al tuo piacer son fermo e presto". Per ch’io ai piedi suoi tutto devoto ciascun peccato li fei manifesto. 30 E poi che di me fu, ben chiaro e noto, diemmi la penitenza cosí dura, quanto volea a lavar tanto loto. Giá venia il sol per alcuna fessura del romitoro, quando a camminare 35 m’apparecchiava e davami rancura. Onde mi disse: "Di’ che vuoi tu fare". E io rispuosi: "Alleviar quel carco, che scarcar mi conven sol con l’andare". "Tu credi, disse, forse quinci un varco 40 securo come se fossi in Vinegia e dovessi ir da Rialto a San Marco. Giá fu cosí; ma tal piú non si pregia,ché per tutto le strade ci son tronche, coperte d’erba e di prun che le fregia. Nel monte Gif non ha tante spilonche, quante si truovan per questo cammino, né tanto oscure né profonde conche. E non dire: - Io son pover pellegrino -, ché i bacarozzi non guardano a quello, 50 pur che possan far male a lor dimino. Per tutto posso dir ch’è baccanello; e però la tua voglia qui sia stretta tanto, ch’attempi il sol, che vien novello: ché molte volte l’uom, per troppa fretta, 55 volendo far, disfá; e dico ancora colui sa guadagnar, che tempo aspetta". "O caro lume mio, rispuosi allora, poco sapria chi dal vostro consiglio si dilungasse il minuto d’un’ora". 60 E cosí, per fuggir morte o periglio, credetti io a lui, come creder de’ ammaestrato da buon padre il figlio. Dolce diletto e caro ancora m’è, quando rimembro le sante parole, 65 che allor mi disse de la nostra Fè. Giá era al cerchio di merigge il sole, quando parlai con grande reverenza: "L’andar mi sprona e il partir mi dole". Il padre, pien di tutta conoscenza, 70 m’intese e disse con soave boce: "Tempo è bene, omai, per mia credenza". Indi mi trasse al sasso de la croce e gli occhi sporticando, il cammin mio mi divisò di una in altra foce. 75 Divotamente il comandai a Dio; ed ello: "Or va, ché come salvò Elia nel carro, sí te salvi al tuo disio". Misimi allor per la mostrata via, avendo sempre attento l’occhio e ’l viso, 80 se cosa alcuna innanzi m’apparia. E, mentre ch’io guardava tanto fiso, una femina iscorsi assai di lunge sí sconcia, ch’io ne fui quasi conquiso. E come avièn che la paura punge 85 l’uom talor sí, che tragge il sangue al core e l’altre vene per lo corpo munge, e che, da poi c’ha stretto sí ’l valore, in fra se stesso di sé si rimembra, onde racquista il perduto colore, 90 sí perdei io il sangue per le membra subitamente e poi cosí raccolsi in me virtute e colore insembra. E quanto i passi miei piú vèr lei volsi ed ella i suoi vèr me, e via piú brutta 95 a membro a membro la sembianza colsi: pensa qual parve a figurarla tutta!