Quid novi?

Il Dittamondo (1-24)


Il Dittamondodi Fazio degli UbertiLIBRO PRIMOCAPITOLO XXIVBen dèi pensar che molto gran letizia si fe’ tra’ miei per cagion de la pace, ché onor seguia e fuggiami tristizia. Ma, perché veggi ben com’è fallace e cieca ogni speranza in questo mondo, 5 di seguire oltra mi diletta e piace. Dico in quel tempo morbido e giocondo sí vidi inebriare il mio bel fiume, che ’l piú de’ miei palagi trasse al fondo. Non fece il fuoco di Neron piú lume, 10 che quel mi fe’ che s’accese in quell’anno, né arse piú de le mie belle piume. E fu sí grave l’uno e l’altro danno, che i Falisci e i Gallici s’ardiro d’assalirmi, con darmi molto affanno. 15 E gli African, che le novelle udiro, rupper la pace e denno aiuto a’ Sardi, i quai si ribellaro al mio impiro. Tito e Gaio, attenti a’ miei riguardi, i Falisci sconfisson per tal modo, 20 ch’assai ne sanguinaro lance e dardi. Valerio contro ai Galli acquistò lodo; si fe’ Torquato e Atilio Bivolco contro ai Sardi, che sempre m’usâr frodo. Tanto Marte mi fu benigno e dolco, che Lucio Flacco e Lucio Cornelio Liguri e Insubri cacciâr fuor del solco. Per le vittorie ch’ebbi in ciascun prelio, mandò Cartagine a far la disfatta pace che avea, non potendo far melio. 30 Ma, certamente, non l’avria mai fatta se sol non fosse la grazia d’un Ano, che mai non nacque il par di tale schiatta. Allor fu chiuso il tempio di Giano, ch’era d’allora in qua stato aperto 35 che Numa altrui l’avea lasciato in mano. In questo tempo ti dico, per certo, né gente in mar né cavalier per terra si combattean per alcun mio merto. Ma come piacque al Sommo, che non erra, 40 questo cotal riposo durò poco, ch’io ritornai a la seconda guerra. Vero è che, prima ch’io ti conti il loco e i piú nomati d’essa, ti vo’ dire cose che funno vere e parran gioco. 45 Io dico che si videro apparire nel ciel tre lune e, dentro a la mia riva, aprir la terra e l’uom vivo inghiottire. E dico, perché tu altrui lo scriva, che piovver pietre dove Ancona è ora 50 e, in altra parte, carne come viva. E già da molti udio contare ancora che fu udito favellare un bue e - cave tibi, Roma, - disse allora. E poi non pur da uno, ma da piue, 55 si disse che ’n Cicilia avea due scudi, de’ quali il sangue uscir veduto fue. Ora comprender puoi, se ben conchiudi, che minacce del Ciel son questi segni, che seguon come stati dolci o crudi. 60 Ma tanto son bestiali i nostri ingegni, che a ciò poco si pensa, e, per tal fallo, giungon le pestilenze ai nostri regni. Non vo’ piú dare al mio dire intervallo: con lieta fronte Emilio trionfai, 65 quando di me fece mentire il Gallo. E Regulo secondo tanto amai, quanto può madre amare alcun figliuolo e, lassa!, la sua morte piansi assai. Per me fu morto dentro al grande stuolo 70 presso ad Arezzo e Livio testimona se degno fu ch’io ne portassi duolo. Levinio onorai de la corona e del mio carro, poi che fu tornato di ver Cicilia e sí di Macedona. 75 Non vo’ tacer come Fulvio e Torquato gli Insubri del campo cacciâr via né che Flaminio fe’ da l’altro lato. Non vo’ tacere come in Lombardia Claudio uccise Viridomaro re 80 e tolse di Melan la signoria. Non vo’ tacer que’ due consigli che Erennio a Ponzio die’, né quanto tristi da Caudio Spurio e i suoi tornaro a me. Certo io non so se mai parlare udisti 85 di cosa scelerata quanto questa, de la qual voglio che per me t’avisti: che fun le mie matrone in tal tempesta, che cercaro d’uccider tutti i maschi, ch’eran nel grembo bel de la mia vesta. 90 Or perché d’ogni cibo mio ti paschi, notar ti voglio i cittadini appunto che meco vidi al tempo che qui intaschi. Al censo, dove ’l nover fu congiunto, dugencinquanta milia si trovaro o pochi piú, se sí non funno a punto. E a ciò che il mio dir ti sia piú caro, l’etá ch’io era vissa è buon sapere, ché ’l parlare è piú bel, quant’è piú chiaro. Dico ched e’ potean passati avere 100 cinquecento anni e venti, allor che fece Cartago meco pace al mio piacere. Di seguitare omai oltra mi lece e ragionar de la seconda briga, che, senza fal, de’ miei tanti disfece, 105ch’ancora il pianto il viso mio ne riga.