Quid novi?

Il Dittamondo (1-25)


Il Dittamondodi Fazio degli UbertiLIBRO PRIMOCAPITOLO XXVNon s’insuperbi alcun, per aver possa, ché qual si fida in questi ben terreni va dietro al cieco e cade ne la fossa. Non creda alcun che questi mortal beni si possano acquistare e poi tenere 5 senza gustar sapor di piú veleni. Forse anni sei potea compiuti avere, quando tornai a la seconda guerra, la qual piú ch’altra assai mi fe’ dolere: ché certamente mai sopra la terra 10 briga non fu, per la qual tante toniche fosson ricise per colpi di ferra. E sian tenute tutte l’altre croniche per ricche spese, a rispetto di questa: io dico ben troiane e macedoniche. 15 E come Livio ancor ti manifesta, li figliuoi d’Amilcar funno cagione per la qual venni a sí mortal tempesta. E qual parrebbe a vedere un leone uscir del bosco, quando ha gran disio 20 di far sopra altra bestia offensione, cotanto bramo e fiero si partio d’Africa Annibale e passò il mare e sui liti di Spagna pria ferio. Lá provai io di volerlo arrestare 25 con preghi, con minacce e con difese: ma fu niente che ’l potesse fare. Sagunto prese e vinse quel paese; e, per lo molto acquisto e per la fama, d’avermi a sé maggior disio li prese, 30 come a l’uom vien che, prendendo una rama de l’albore, che con piú voglia bada giungere a quella ov’è ’l frutto che brama. E si mosse col fuoco e con la spada, fiumi e selve passando, in fin che venne 35 lá, dove coi piccon fe’ far la strada. Né Scipio Cornelio allora il tenne né ’l passo del Tesin, né quel del Taro, né Sempronio, ché sol fuggir convenne. Né la freddura poté far riparo 40 con la gran neve al giogo d’Apennino, benché ’l passar assai li costò caro; né fu tal la ventura né ’l distino di Flaminio mio e de’ compagni che potesson por fine al suo cammino. 45 Or sarai crudo, se gli occhi non bagni udendo ’l gran martir, ch’a dir ti vegno, e se qui meco il mio dolor non piagni. Ahi, Canosa, quanto ancora mi sdegno di nomar te, quando fra me rimiro 50 che fonte fosti al sangue mio piú degno! Orosio ben descrive il gran martiro ch’ el fe’ de’ miei, per gli anelli tratti de’ diti a quelli che quivi moriro. Tanti ne funno allora morti e catti, 55 che, se seguito avesse la fortuna, posto avea fine a tutti i miei gran fatti. Oh quanto è senno, quando cosa alcuna buona innanzi t’appar, prenderla tosto, ché poi, passata, è un guardar la luna! Apresso tutto quel ch’io t’ho proposto piú dí passati, col suo gran podere si mosse e venne al mio dolor disposto. E cosí me, ch’avea potuto avere, cercando andava (ma ciò fu niente) 65 che mi potesse al suo disio tenere; benché, secondo ch’io mi tegno a mente, la pioggia allor li tolse la vittoria, onde ai suoi dei si dolse amaramente. Ormai ti vo’ contar de la mia gloria 70 e ragionar di Scipio, la cui luce lume fu sempre a tutta la mia storia. Ché, come alcuna volta il ciel produce e la natura un uom, ch’al mondo è tale che miracolo par ciò che conduce, 75 costui produsse. E però che fa male qual pone il ben ricevuto in oblio, qui vo’ tenere un poco ferme l’ale. Dico che questo caro figliuol mio tanto felice e grazioso fue, 80 che la gente il tenea quasi uno dio. E non credo facesse a Troia piue Ettor, che fe’ costui per iscamparmi: sí valorose fun l’opere sue. Prudente, giusto, accorto, franco in armi, 85 e temperato e forte in suoi costumi, largo e casto lo trovi in molti carmi. Qui pensa se è ragion ch’io mi consumi: ch’avendomi difesa a ogni mano, per molta invidia accusato fumi; 90 onde il mio senno fu sí poco e vano, ch’io gli chiesi ragione: e sol trovai non piú portarne che ’l nome Africano. Se ingrata fui, ben l’ho, poi, pianto assai.