Quid novi?

Il Dittamondo (1-27)


Il Dittamondodi Fazio degli UbertiLIBRO PRIMOCAPITOLO XXVIIS’io t’ho parlato di Scipio sí largo, non ti maravigliar, ché fu sí degno, che volentier la fama ancor ne spargo. Ma perché forse troppo qui ti tegno, piú breve intendo ragionare omai degli altri buon, che seguio nel mio regno. Apresso questo, Flaminio mandai sopra Filippo re di Macedona, dal qual sentito avea tormento assai. E preso il regno a patti e la persona, a Navide si volse e quello ancora fece di lui e di Lacedemona. Ricco triunfo li fu fatto allora, come reddio co’ riscossi e coi presi, de’ quali il carro e sé quel dí onora. D’uno Amilcare ancor parlare intesi, che guastava co’ Boi Piacenza e Parma, il quale, al fine, lui e i suoi, offesi. Non saggio è quel che ’l nimico rispiarma da poi che, combattendo, in fuga il mette e che, se può, nol prende e nol disarma. Non saggio fu Pompeo, quando ristette di Cesare cacciare, avendol vinto; non fu Ettor, se a Talamon credette. Qui lodo Furio, che mai vidi infinto di perseguire i Boi, che con vittoria avean del campo Marcello sospinto. Qui lodo Fulvio, del qual fo memoria che in Ispagna di Lucio fe’ vendetta sí alta e grande, ch’assai mi fu gloria. Qui di Cornelio e Glabrio mi diletta parlar, li quali confinaro Antioco con pace, a forza, in parte acerba e stretta. E Scipio mio cacciò sí d’ogni loco Annibale, che ’n Prusia, per tristizia, prese ’l velen, col qual poi visse poco. Cosí di Paolo ancor prendo letizia, che Crasso vendicò e Perseo prese, prese il figliuol, ma taccio la giustizia. Una schiatta Basterna allor discese a passar sopra il ghiaccio la Danoia, per guastare e disfare il mio paese. Novella udio di questa gente croia di subito, la qual molto mi piacque: che ’l ghiaccio ruppe e ’l fiume poi l’ingoia. 45 Un altro Scipio in quel tempo nacque, lo qual per sua vertú tanto s’avanza, che quasi qui d’ogni altro mio si tacque. E come di costumi e di sembianza seguio Troilus Ettor, prese costui 50 de l’Africano nome e simiglianza. A ragionar brevemente di lui, Numanzia prese e fe’ del sangue lago del Barbarin, che minacciava altrui. A ’ngegno prese e per forza Cartago; 55 poi l’arse tutta e qui finio la guerra, che trafitta m’avea d’altro che d’ago. La ruina e ’l dolor di quella terra non fu minor che ’l pianto, che si sparse in Troia allora che Ilion s’atterra. 60 Né fu minore il fuoco ancor che l’arse, né d’Ecuba maggior l’acerba morte, che quivi quel con la reina parse. Cento venti anni fu la briga forte tra lei e me; or pensa se m’aggrada 65 la fine udir de la sua grave sorte. Asepedon rubellò la contrada di Macedona, ond’io mandai Metello, che vinse lui e ’l regno con la spada. Cosí Mummio lo gran tesoro e bello 70 di Corinto consuma; parte ebbi io e parte il fuoco converse in ruscello. Qui vidi me e vidi il regno mio per queste alte vittorie in tale stato, che ’l piú del mondo mi portava fio. 75 Ma com vedi ciascun ben, che ci è dato per la fortuna, poco aver fermezza, cosí dopo ’l seren venne il turbato: ché, dove io era in tanta grandezza, in ne la Spagna Viriato apparve ch’assai mi fe’ sentire al cuor gravezza. E, secondo ch’udire allor mi parve, peggio m’avrebbe fatto, se non fora che, tradito da’ suoi, di vita sparve. Da notare è l’alta risposta ancora 85 che Cipio fe’ a coloro che ’l tradiro, che chieser premio di tal fallo allora: “Non piace a li Roman, non han disiro che i cavalieri uccidano il lor duca, né premio dar di sí fatto martiro”. 90Cotale asempro è buon che tra’ buon luca.