Quid novi?

Il Dittamondo (1-28)


Il Dittamondodi Fazio degli UbertiLIBRO PRIMOCAPITOLO XXVIIIDal principio mio al dí che fue Cartagine distrutta, eran giá iti lustri cento ventuno e poco piue. In questo tempo, che qui meco additi, Bruto mandai, che i Lusitan percosse 5 sí, che piú tempo ne funno smarriti. La pace di Mancin tanto mi cosse, ch’io il fei gittar tra i nemici legato, dove a la fin rimase in carne e in osse. Qui torno a Scipio, del qual t’ho parlato, 10 ch’avendo posto a Numanzia l’assedio, e chiusa tutta intorno d’un fossato, tanto fu grave a’ Numantini il tedio sí de la fame e de gli altri disagi, che, disperato ognun d’ogni rimedio, 15 ne’ belli alberghi e ne’ ricchi palagi e ne le gran ricchezze il fuoco mise e cosí la cittá converse in bragi. Apresso il danno, per diverse guise, per non dar di sé gloria ai lor nemici, 20 senza pietá l’un con l’altro s’uccise. I Gracchi scelerati e infelici, superbi, ingrati come Luciferro, fenno lor setta a morte de’ patrici: de’ quali alcuno fu morto di ferro, 25 alcun secondo legge per sentenza ed alcuno annegato, s’io non erro. In questo tempo fu la pistolenza per le locuste sí grande e acerba, ch’io piango ancor di tanta cordoglienza: 30 ché in prima consumâr le biade e l’erba e poi, cadute in mar, gittâr tal morbo, che di sei tre e piú di vita isnerba. E se qui il vero bene allumo e forbo, quel c’hai veduto nel mille trecento 35 e quarantotto non parve piú torbo. Poi, dopo questo gran distruggimento, ch’ancor piangea ciascun dolente e lasso il danno ricevuto e ’l suo tormento, per li Franceschi mi fu morto Crasso: 40 e quanto trista fui de la sua morte e de’ compagni suoi a dir qui lasso. Ma qui mi lodo di Perpenna forte, che tanto a la vendetta mi fu caro, ch’io l’onorai con tutta la mia corte. 45 Seguita ora a dir del pianto amaro che i Cimbri e gli Ambron sentir mi fenno, quando il guadagno in Rodano gittaro. La gran franchezza di Sulpicio impenno, lo qual Popedio e Supidio sconfisse 50 e vendetta di lor fece a mio senno. Un altro Crasso fu, che, fin che visse, cupido il vidi e sí ghiotto de l’oro, che degno fu che tal sapor sentisse. Di Metello mi lodo, e qui l’onoro, che piú pirati, che correan lo mare, prese e distrusse e cacciò d’ogni foro. E l’isole in ponente Baleare condusse sotto me per sua vertute, ma non senza gran forza dèi pensare. 60 In questo tempo per le bocche acute di Mongibello uscîr sí alte fiamme, che tai da poi non funno mai vedute: onde i padri e i fanciulli con le mamme di Catania fuggîr con tanta fretta, 65 ch’a pena dir potresti piú tosto amme. Gli Allobrogi e i Galli, una gran setta, fun per Igneo Domizio morti e lesi, come gente superba e maladetta. Di Bituito re contare intesi 70 che Fabio dispregiava e la sua gente, come se giá gli avesse tutti presi, quando sconfitto fu tanto vilmente, ch’al Rodan giunto, per la calca molta ruppesi il ponte e non valse niente. 75 Quivi, se a dietro volean dar la volta, cadean tra i morti e, se fuggiano innanzi, bevean de l’acqua, ch’era grave e molta. Non funno i Numantin, ch’io dissi dianzi, a la morte piú fieri né sí acerbi, 80 né con pensieri di migliori avanzi, che quei Franceschi miseri e superbi che Quinto Marcio a pie’ de l’Alpi strinse, sí che perdero il vin, le bestie e l’erbi. Né certo mai pintore non dipinse 85 di tanta gente maggior crudeltate, né con penna scrittor carta ne tinse. Qui noto il tempo de la mia etate: dico che Olimpiades cento cinquanta e nove avea, men forse una state, 90se la memoria dal ver non si schianta.