Quid novi?

Il Dittamondo (2-01)


Il Dittamondodi Fazio degli UbertiLIBRO SECONDOCAPITOLO IQui son de’ miei figliuoi giunta a la foce; qui Cesare m’aspetta e qui mi chiama con la sua grande e magnanima voce. Costui, per darli onor, grandezza e fama, mandai in Francia e giú di sotto il Reno, 5 sopra gente che sempre poco m’ama. E se ne’ suoi cinque anni avesse a pieno compiuto il suo dover, non li sarei de l’onor che volea venuta meno. Ma per legge che fe’ Pompeo tra’ miei, 10 per l’arbitrio che da se stesso prese, il mio senato il giudicò tra’ rei. Questo, ch’io dico, e le soperchie spese, invidia e cupidigia fun cagione del mal, che sopra me per lui discese. 15 E come per natura sua il leone, allor che ’l cacciator nel bosco mira, l’ira raccoglie e diventa fellone: ciò è che tanto la sua coda gira sé percotendo, che ’l nobil cor desta 20 e diventa sdegnoso e pregno d’ira; fatto crudele, con tanta tempesta si lancia in contro a qual vede piú presso, che par che tremi tutta la foresta, cosí Cesare allora in fra se stesso 25 si combattea, cercando le cagioni come ’l suo core a ira fosse messo. Poi, crudel fatto, le sue legioni armate mosse e contro a me ne venne, che folgor parve quando vien da’ tuoni. 30 Né la gran pioggia a Rubicone il tenne, né ’l mio dolor, né lo scuro sembiante, né i suoi veder pensar tra l’esse e l’enne, che non seguisse dietro dal gigante, e gli altri apresso, ché al mio tormentare ciascun fe’ il cor piú duro che diamante. Troppo lungo sarebbe a raccontare ciò che fe’ in Spagna, Marsilia e Tessaglia e sopra a Tolomeo, passato il mare. Troppo starei a dirti la battaglia 40 lá dove Giuba fu e ’l buon Catone, che per mia libertá tanto travaglia. Troppo starei a dirti la cagione, dove e come s’uccise Rancellina, quando fu morto Igneo nel padiglione. 45 Troppo starei a dirti la ruina ch’el fe’ de’ miei e come Cassio e Bruto dopo tre anni insieme l’assassina. S’io ti dovessi dir tutto compiuto a passo a passo il fatto e dirti ancora 50 la gente ch’ebbe contro e in aiuto, e ricordarti quel che fece allora Domizio a Corfino e ancora dove col braccio in man la fine sua onora, e di Scipio piú volte le gran prove 55 e Vergenteo in sul lito marino, che allor fe’ sí ch’assai n’è scritto altrove; e sí come Appio andò ad Apollino e Sesto ad Ericon, sol per sapere ciascun la veritá del suo distino; 60 e quanto Leneo fu di gran podere e Metello, che ’n su Tarpea si dolse, quando spogliar la vide del mio avere; e come Ulterio pria la morte volse che domandar mercé, tanto fu duro, 65 e ciascun suo compagno a ciò rivolse; e come Sceva, che fu aspro e sicuro,istava a la difesa come un verro, quando fu morto a Durazzo in sul muro; e quanto mal mi fe’ l’ardito ferro 70 di Lelio, che l’aquila portava e sopra l’elmo, per cimiero, un cerro; e dirti del valor, che s’adornava colui che Igneo in su la guardia uccise, quel dí che Cesar piú si disperava; 75 e quanto mi fe’ noia e mi conquise l’altro, per cui ne la navicella Iulio con Amiclate andar si mise; e divisarti come mi fu fella la lingua di quel Curio maladetto, 80 che tanto ardito contro a me favella: ora, come di sopra t’ho giá detto, senza alcun dubbio noi staremmo troppo, volendo di ciascun contar l’effetto: per ch’io in prima l’uno e l’altro doppo 85 vo nominando e prendo pur lo fiore e quanto posso in brieve poi gli aggroppo. Qui dèi pensar che per suo gran valore, per doni, per franchezza e per sapere, Cesar del mondo e di me fu signore, 90 e ch’esso fe’, per tanta gloria avere, cinquantadue battaglie, che niuna fu senza trombe e ordine di schiere: e cosí fa col buon buona fortuna.