Quid novi?

Il Dittamondo (2-05)


Il Dittamondodi Fazio degli UbertiLIBRO SECONDOCAPITOLO VLa grazia che nel mondo al Padre piacque di far, com’hai udito, fu la pace quando il Figliuol de la Vergine nacque. Morto Ottavian, che fu tanto verace e grazioso a governar lo ’mperio, che quanto piú ne parto e piú mi piace, il gener suo e privigno Tiberio, del qual parlar di sopra m’hai udito, eletto fu a tanto magisterio. Prudente il vidi e molto in arme ardito e fortunato e di sottile ingegno, d’alta scienza e con parlar pulito. Ma poi ch’egli ebbe ben preso il mio regno, divenne avaro e senza coscienza, simulatore e d’altri vizi pregno. Al tempo suo la umana semenza vita recoverò col benedetto sangue, che sparse la somma Potenza. Qui ti vo’ dir, perché ti sia diletto, Pilato fe’ confinare a Vienna, dove s’uccise d’ira e di dispetto. E non vo’ che rimanga ne la penna ch’Erode ed Erodiade lá moriro sí pover, che vendero e gonna e benna. Ma di quel ch’or dirò ancor sospiro: finí Ovidio, nel tempo ch’io dico, in esilio cacciato del mio giro. Diciott’anni fu meco questo antico e, facendo in Campagna sua dimora, provò il velen quant’è del cor nemico. Dopo costui fu dato il mio allora al suo nipote Gaio scelerato, del qual parlar m’è gran dispetto ancora. Superbo il vidi, avaro e dispietato e di lussuria sí acceso e pieno, che ne la propia carne usò il peccato. Bestia dir puossi, ché fu senza freno; ed el cosí come bestia fu morto e quattro anni mi tenne o poco meno. A Claudio poi fu il mio tesoro porto: qui Pietro a seminar quel seme venne, che poi fe’ sí buon frutto nel mio orto. Otto anni e sei questo signor mi tenne, lo qual Bretagna con l’isole Arcade ritornar fece sotto le mie penne. 45 Ben dèi pensar che sí lungi contrade non s’acquistâr, che non vi fosser molte battaglie gravi e piú colpi di spade. E benché or sian disoneste e sciolte le mie parole e la novella strana, 50 nondimen voglio che tu qui m’ascolte. Una donna ebbe costui, Messalana, tanto lussuriosa, che palese con l’altre lupe stava ne la tana. Cosí la trista il suo onore offese; 55 cosí la trista il suo signore abassa, né mai di cotal fallo si riprese, e, per quel che si parla e si compassa, a cosí fatto vizio mai costei non fu veduta sazia, ma sí lassa. 60 Or qui è bel tacere omai di lei, ché troppo è lungo a dir ciò che si dice di questo fallo e de gli altri suoi rei. In questo tempo apparve la fenice in Egitto, la qual veduta fue 65 prima in Arabia per piú lunga vice. Cinquecento anni vive e ancor piue e, quando a la fin sua apressa, questa si chiude ove arde poi le membra sue. Il collo ha che par d’oro, e la sua testa, 70 sí bel, ch’abbaglia altrui col suo splendore e, per corona, una leggiadra cresta. Il petto paoneggia d’un colore di porpora e il dosso suo par foco e com’aguglia è grande e non minore. 75 Tutti i nobil colori a loco a loco fra le sue penne ha sí ben ritratto, che ’l pavon vi parrebbe men che poco. E perché noti ben ciascun suo fatto, un vermicel de la cenere nasce, lo qual, crescendo, trasforma in questo atto. Incenso e mirra è quello onde si pasce; e sappi ben che mai non è piú d’una; castitá guarda ne le belle fasce. Ma qui ritorno a dir la mia fortuna, 85 la qual seguio, come udir potrai, acerba e dura quanto mai alcuna. Morto costui di tosco, io mi trovai del dispietato e superbo Nerone, per lo qual caddi di ricchezza assai. 90 De la mia vesta nel piú bel gherone, lassa!, questo crudele il foco mise, seguitando il voler senza ragione. Piú senatori e ’l suo fratello uccise e la sua donna e odi se fu rio, 95 che per lo corpo la madre divise. Lo primo fu che i cristian perseguio e morir fece di veleno ancora Seneca, ch’era del mondo un disio. La fine sua molto mi piacque allora, 100 perché fu tal quale a lui si convenne, ben che ’l ciel troppo a ciò voler dimora,ché tredici anni e piú trista mi tenne.