Quid novi?

Terze Rime 25 (1)


Terze Rime di Veronica FrancoAddelkader Salza, Bari, Laterza 1913XXVDella signora Veronica Franca[In lode di Fumane, luogo dell'illustrissimo signor conte Marcantonio della Torre, preposto di Verona.]Non vorrei da l'un canto esser mai stataa quel bel loco, per dover partire,come fei, non ben quivi anco arrivata.Così gravoso il ben suol divenire,che, quant'egli è maggior, via maggior duolocol dilungarsi in noi suol partorire:tosto ne va 'l piacer trascorso a volo;né ponendo in ragion l'util passato,a la perdita mesti attendem solo.E non vorrei però da l'altro latosì vago nido non aver veduto,a la tranquillità soave e grato.E, se pari al desio non l'ho goduto,quanto guastato più, tanto più caro,il lasciarlo mi fôra dispiaciuto.E pur, formando un pensier dolce amaro,con la memoria a quei diletti torno,che infiniti a me quivi si mostráro:sempre davanti gli occhi ho 'l bel soggiorno,da cui lontan col corpo, con la mente,senza da me partirlo unqua, soggiorno:ricrear tutta in me l'alma si sente,mentre qua giù sì lieto paradisoda dover contemplar le sta presente.Da questo lo mio spirto non divisova ripetendo le bellezze eterne,dal soverchio piacer vinto e conquiso.E, mentre le delizie avido scerne,nel gioir di se stesso, afflige i sensi,che non puon separati ancor goderne:così, quanto m'avien ch'amando pensia l'abitazion vaga e gentile,tra gioia e duol convien che 'l cor dispensi.In questo piglio in man pronta lo stile;e, per gradir al sentimento, fingoquel loco quanto possi al ver simìle:e, se ben so ch'a impresa alta m'accingo,tirata da la mia propria vaghezza,senz'arte quel ch'io so disegno e pingo.Oh che fiorita e gioconda bellezzaquivi mostra e dispiega la natura,raro altrove o non mai mostrarla avezza!Certo è questa, quell'unica fattura,in cui, vinta se stessa, a tutte proveripose ogni sua industria, ogni sua cura.Di tutto quel che piaccia al mondo e giove,favorevole il cielo a cotal opra,il maggior vanto eternamente piove.Quivi 'l ciel manda il suo favor di sopra,né men la terra in adornar tal partecon gli altri, a gara, elementi s'adopra.Vince l'imaginar d'ogni umana artela disposizion di tutto 'l bene,ch'unito quivi intorno si comparte;e pur di quell'altezza, ove pervienel'eccellenza de l'arte in cose belle,vestigie espresse il bel luogo ritiene.Così determinarono le stellefar quivi in dolci modi altrui palesequanto puon destinar e influir elle.In questo avventuroso almo paesel'ornamento del ciel si mostra in terra,ch'a farlo un paradiso in lui discese.Di lieti colli adorno cerchio serral'infinita beltà del vago piano,dove Flora e Pomona alberga ed erra.Quasi per gradi su di mano in manodi fuor s'ascende 'l poggio da le spalle,sempre al salir più facile e più piano;quinci in giù per soave e destro calles'arriva a la pianura in pochi passi,ch'è posta in forma di rotonda valle:se non che in guisa rilevata stassi,ch'è quasi, entro a quei colli, un minor colle,che 'ntorno a lor si dispiani e s'abbassi,sì che d'entrarvi a Febo non si tolle,poco alzatosi fuor de l'oriente,nel prato d'erbe rugiadoso e molle.Entra 'l sol quanto entrar se gli consenteda un bosco d'alti pini e di cipressi,pien d'ombre amiche al dì lungo e fervente;e gode di veder quivi con esside la sua amata in corpo umano fronde,già braccia e chiome, or verdi rami spessi,tra' quai quanto può penetra e s'asconde,per la memoria ch'anco entro 'l cor serba,de l'amorose piaghe profonde.De la ninfa la sorte così acerbapietoso Apollo ai grati rami tira,ed a quivi posar vago tra l'erba:l'aria d'intorno ancor dolce sospiradi Dafne al caso, e spirto d'odor pieno,le vaghe foglie ventilando, spira.E 'l ciel, là più ch'altrove mai sereno,fa che d'ogni stagion la copia vuotein quella terra il corno suo ripieno.Quivi con l'urne non mai stanche o vuotea portar l'acque son le ninfe pronte,tai che 'l cristal sì chiaro esser non puote:queste versando van da più d'un fontele succinte e leggiadre abitatricidi questo e quel vicin ben colto monte;ed a l'altre compagne cacciatrici,che, dietro i cervi stanche, a rinfrescarsivanno le fronti angeliche beatrici,co' bei liquidi argenti intorno sparsiporgon dolce liquor da trar la sete,e le candide membra da lavarsi.Dai freschi rivi e da le fonti liete,quasi scherzando, l'acque in vario corsodeclinan verso 'l pian soavi e quete;e, poi che 'n lenta gara alquanto han corso,per via diversa si raggiungon tutteverso un bel prato, a lor dinanzi occorso;e da natural arte a far instruttebello quel sito a maraviglia, vannoper canali angustissimi ridutte.Quivi entrate, a varcar poco spazio hanno,ch'a un fiorito amenissimo giardino,dolce tributo di se stesse dànno:con man distesa e passo tardo e chinodàn di se stesse le più dolci e chiareal giardinier ch'a l'uscio sta vicino.Questi, com' a lui piace, le fa entrare,ch'obedienti a l'arte, fan quel tantoch'altri accorto dispon che debban fare.Non cede l'arte a la natura il vantone l'artificio del giardin, ornatod'alberi colti e sempre verde manto;sovra 'l qual porge, alquanto rilevato,d'architettura un bel palagio tale,qual fu di quel del sol già. poetato:infinito tesor ben questo valeper l'edificio proprio, e gli ornamenti,che 'n ricchezza e in beltà non hanno egualeI fini marmi e i porfidi lucenti,cornici, archi, colonne, intagli e fregi,figure, prospettive, ori ed argentiquivi son di tal sorte e di tai pregi,ch'a tal grado non giungono i palagi,che fêr gli antichi imperadori e regi.Ma le commodità di dentro e gli agison così molli, che gli altrui dilettial par di questi sembrano disagi.Per li celati d'òr vaghi ricetti,sul pavimento, che qual gemma splende,stan sopra aurati piè candidi letti.Di sopra da ciascun d'intorno pendedi varia seta e d'òr porpora intesta,che 'l contegno de' letti abbraccia e prende;di coltre ricamata o d'altra vestadi ricca tela ognun s'adorna e copre,sì ch'a fornirlo ben nulla gli resta.Di diversi disegni e diverse opresu coverte e cortine in tutti i lativario e lungo artificio si discopre.I dèi scender dal cielo innamoratidietro le ninfe qui si veggon finti,in diverse figure trasformati;e d'amoroso affetto in vista tinti,seguitar ansiosi il lor desio,dove dal caldo incendio son sospinti.Qui trasformata in vacca si vede Io,e cent'occhi serrar il suo custode,al suon di quel, che poi l'uccise, dio.Da l'altra parte Danae in sen si godevedersi piover Giove in nembo d'oro,ov'altri più la chiude e la custode;il quale altrove, trasformato in toro,porta Europa; ed altrove, aquila, pigliaGanimede e 'l rapisce al sommo coro.Di Licaon fatta orsa ancor la figlia,mentre ucciderla il figlio ignota tenta,assunta in cielo ad orsa s'assomiglia:né pur orsa celeste ella diventa,figurata di stelle in cotal segno,ma 'l figlio in ciel l'altr'orsa rappresenta.Quanto è possente il nostro umano ingegno,che vive fa parer le cose finteper forza di colori e di disegno!Di seta e d'oro e varie lane tinte,nei tapeti, ch'adornan quelle stanze,da l'imitar le cose vere èn vinte.E, perché nulla a desiar avanze,ch'orni di Giove un'alta regia degna,dove, lasciato 'l ciel, qua giuso ei stanze,qualunque ebbe tra noi la sacra insegna,ch'a quei con le sue man Dio stesso porge,che d'esser suoi vicari in terra ei degna,qualunque di pastor al grado sorgede la chiesa divina, in espresso attonobilmente dipinto ivi si scorge:quivi ciascun pontefice ritrattopiù che dal natural vivo si vede,di tela, di colori e d'ombre fatto;e, com'a tanta maestà richiede,da l'altre in parte eccelsa e separatasì reverende imagini han lor sede.Similmente, in maniera accomodata,di quei l'effigie ancor son quivi, i qualidel ciel sostengon la felice entrata:quanti mai fùr nel mondo cardinali,quivi entro stan co' papi in compagnia,e vescovi, e prelati altri assai tali.Perché conforme al paradiso siaquell'albergo divino, in sé ritienedi gente i volti così santa e pia.Di quel ch'al sacerdozio si conviene,da l'essempio di molti espressi quivi,in perfetta notizia si perviene:questi, ancor morti, insegnar ponno ai vivi,anzi in ciel vivon sì, che 'l loro nomein terra sempre glorioso arrivi.E, perch'alcun io non distingua o nome,di quelli intendo, che fùro innocenti,e del demonio fêr le forze dome.Le costor fronti a mirar riverenti,così pinte, ne fanno, e in noi pensieridestano de le cose più eccellenti:seguendo l'orme lor, fan ch'altri speri,che tien lo scettro de la casa vaga,d'alzarsi al ciel per quei gradi primieri.Questa de la sua vista ognuno appaga,e sol de la memoria al cor m'imprimecolpi, che 'nnaspran la già. fatta piaga.Di que' be' colli a le frondute cimealzo 'l pensier, che, dal duol vinto e stanco,fa che gli occhi piangendo a terra adime.Standomi sul verron del marmo bianco,dove 'l palagio alzato agguaglia il monte,ricreata posava il braccio e 'l fianco:qui piagner Filomena le triste ontecon la sorella sua dolce sentìada lor non così chiare altrove cònte:da le fontane ad ascoltar venìaquesto e quel ruscelletto, e mormorandoquasi con lor piangeva in compagnia.Ben poscia a quel tenor dolce cantandogivan gli augelli per li verdi rami,del loro amor le passion mostrando.Oh che liete querele, oh che richiamiformavan contra 'l ciel, sì come suolechi, benché ridamato, altrui forte ami!Con voce più che d'umane parolepar che sappian parlar quelli augelletti,sì ch'ad udirli ancor fermano il sole.Talor narrano poi gli alti diletti,che spesso dagli amati abbracciamentiprendon, de le lor vaghe al fianco stretti.Di gran dolcezza il cielo e gli elementi,per tal piacere e per molti altri assai,quivi gioiscon placidi e contenti;e, rischiarando ognor più Febo i rai,la fiorita stagion vago rimenadi molti, non che d'un, perpetui mai.D'arabi odor la terra e l'aria piena,l'una più sempre si rinverde e infiora,l'altra ognor più si tempra e rasserena.Oh che grata e dolcissima dimora,dove, quanto di vago ognor più miri,tanto più da veder ti resta ancora!Dovunque altri la vista a mirar giri,ne la beltà veduta oggetto trova,che più intente a guardar le luci tiri;e nondimen, perch'ognor cosa novad'intorno appar, che l'animo desvia,ad altra parte vien ch'indi le mova.La bellezza del sito, alma, natia,gli occhi fuor del palazzo a veder piegaquanto ivi ricca la natura sia;ma poi di dentro tal lavor dispiegal'arte, che la natura agguaglia e passa,ch'ivi l'occhio, a mirar vòlto, s'impiega;e, mentre da un oggetto a un altro passa,l'un non gustato ben, da nòve brametirato, impaziente il preso lassa.Così non trae, ma più cresce la famed'assai vivande un prodigo convito,che de l'una al pigliar l'altra si brame:così ne la virtù de l'infinito,senza mai saziarne, ci stanchiamo,s'al sommo bene è 'l pensier nostro unito.Questa insazietà grande proviamoespressamente, allor che l'intellettodivin, filosofando, contempliamo.Lascia sempre di sé più caldo affetto,ne l'affannata mente, il ver supremo,ond'ha perfezzion l'uom da l'oggetto;benché l'affanno è tal, ch'ognor più scemodel mortal fango il nostro spirto face,e d'ir al ciel gli dà penne a l'estremo.Felice affanno, che ristora e piacene l'unir di quest'anima a quel vero,che gli umani desir pon tutti in pace:a quel, che del suo eccelso magisteromostrò grand'arte in queste alme contrade,feconde del piacer celeste intiero.Qui di là su tal grazia e favor cade,ch'abonda al compartirsi in copia moltala gioia in ogni parte e la beltade;sì che, mentre ad un lato ancor sol vòltagode la vista, in quel più sempre scorgenova maniera di vaghezza accolta,né de l'una ben tosto ancor s'accorge,che s'offre l'altra e, quasi pur mo' nata,meraviglia e diletto insieme porge.(continua)