Quid novi?

Rime inedite del 500 (XII)


Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)XII[1 Di Nicolò Amanio]Del AmanioQual più saggie parole, o più secrete Potran sì aperto dirvi il mio dolore? Come voi dal timore, Dal mio non saper dir, donna, il vedete. E se vostro valor, vostra bellezza Forse v'han gionto a tale, Che al mio stato mortale Vostro sdegno gentil mirar disprezza. E s'io a mirar quegli occhi impallidisco, Ed ardo, e l' ardor mio dir non ardisco, Morte il fin del mio male Serà; ché 'l core hormai tacendo more, Se tanto con pietà nol soccorrete Quanto più bella d'ogni bella siete.[2 Di Nicolò Amanio]AmanioDunque se i miei desiri, Se le mie accese voglie Questo ostinato stil vorran seguire, Da possenti martiri, Da le soverchie doglie Mi converrà per voi, dama, morire? Dunque, se mai uscire Da sì alta impresa penso, S'erge da quel pensiero Il mio foco e più fiero, E con forza maggior si fa più intenso; Tal che se i' v'amo, i' ardo, e se per sorte Penso lasciarvi, i' vo drieto a la morte. Dunque che tu ch'in aspetto Di tutto 'l ciel più strano Guardast'il nascer mio, torbida stella, Mi volesti interdetto Tenir l'arbitrio umano, Finché in tutto da me l'alma si svella. Ch'io non posso di quella, Onde mia morte viene, Luce fugir' il foco; E s'io la miro poco, Veggio lontano il fin de le mie pene. Iniquo ciel, novi aspri dolor mei, Ch'io non posso voler quel che vorrei! Ma, s'a volervi amare I' manco in sì alto ardore, E 'l volervi fuggir morte n'acquista, Qual de tue pene amare Prenderai, qual dolore A uscir de queste membra, alma mia trista? Dolce mia amata vista, I' voglio nel bel viso Morirmi risguardando, Morirmi ardendo amando; Ché se posso morir, mentre che fiso Premo mirando que' begli occhi, allora So ch'io morrò senza sentir ch'io mora. Hor vedi, Amor, là dove Gli occhi mortal di questa Altera donna mia condotto m'hanno; E quanto in me si move Dolor, quanto si desta Alto in quest'alma mia noioso affanno; Che i miei pensier si stanno, O ch'io mora in presenza De' begli occhi lucenti, E in quelle fiamme ardenti, O, s'io vorrò fuggirle e viver senza, Ch'io veggia a poco a poco uscirne in vita Dagli occhi con le lagrime la vita. Ah! che son gionto a tale Ch'io non vorrei a pena Cangiar questa miseria in altro stato. Dolce mio, amaro male, Da voi falsa sirena, Da voi son, maga mia, sì trasformato. Voi, e 'l destino, e 'l fato De miei tormenti siete; Altre stelle, altri cieli Son altrui mortal veli, Suo viver, sue passion piover solete; Son gli occhi di costei le erranti e fisse Stelle onde 'l ciel (le) mie doglie prescrisse. Tu destinata adunque Mia sorte, da begli occhi Fa per ultimo don che almanco impetre Che mai non venga ovunque, Me posi, e mai non tocchi Costei, dove io sarò, chiuse le pietre, Ché, se mai fia che aretre Mia doglia, ancor in tanto Che dove i' sia sepolto Senta apparir quel volto; I' entrarò sotterra anco altro tanto Per tema così morto de le false Sue viste, de cui armato Amor m'assalse. Canzon, s'ancor trema il mio seno, dilli: Sgombritisi dinanzi ogni altra voglia; Mori, che morte è il fin d'ogni altra doglia.[3 Di Nicolò Amanio]Del AmanioLa bella donna mia d'un sì bel foco, E di sì bella neve ha il viso adorno, Ch'Amor mirando intorno Qual di lor sia più bel, si prende a gioco. Tal è proprio a veder quell'amorosa Fiamma, che nel bel viso Si sparge, ond'ella con soave riso Si va di sue bellezze innamorando, Tal è a veder qualor vermiglia rosa Scuopre el bel paradiso De le sue foglie, allor che 'l sol diviso Da l'oriente sorge il giorno alzando; E bianca sì come n'appare quando Nel bel seren più limpido la luna Sovra l'onda tranquilla Ch'i bei tremanti soi raggi scintilla. Sì bella è la beltade ch'in quest'una Mia donna hai posto, Amor, e in sì bel loco Che l'altro bel de tutto 'l mondo è poco.4 Di Nicolò Amanio]Quelle pallide, angeliche vïole, Colte per mia ventura in paradiso, Qual con candida mano e dolce riso Donast' a me, piene di grazie sole, Sono in l'anima mia con le parole Soavi impresse e 'l vostro lieto viso, Ch'han me da me dolcemente diviso, E moro d'una morte che non duole. Sì come i fiori alla stagion megliori, Vaghi e belli si fan(no), così a voi lice Nel freddo tempo mantener' i fiori. Ed io, vostra mercè, lieto e felice Il don terrò finché in me fien gli ardori, Benché un tal don a me par non sia lice.[5 Di Nicolò Amanio]Tosto che in questa breve e fragil vita Il mio bel sol d'ogni virtude adorno Apparve, tutti i dei ebbe d'intorno Ed ogni grazia parimente unita. Questa, dicea ciascun, dal ciel gradita Pianta da me vien prima e questo è il giorno, Ch'io l'ho produtta e che a vederla io torno; Così lite fra lor nacque infinita. Vener' intanto un dolce bacio prese Da l'angelica bocca, e poi rispose: Questo chiaro farà nostre contese. Allor fiorirno le vermiglie rose D'ostro celeste, sì polite e accese Ch'Amor per starvi sempre vi s'ascose.[6 Di Nicolò Amanio]AmanioBen mi potea pensare Che tor me la dovea a tempo, a luoco, Perché ogni extremo sole durar poco. Extremo era il mio ben, che d'ora in ora Da madonna avev'io, un sì cortese, Sì uman, sì dolce e sì grato ascoltarmi. Or poss'io ben lagnarmi Che da me solo hormai saranno intese Queste dolenti mie parole ognora. Deh!, dolor mio crudel, fa almen ch'io mora Nanti che veder mai Quel ch'io so che vedrai. Ma questo è il mio dolor, questo è il mio foco Ch'io l'uscirò di mente a poco a poco.[7 Di Nicolò Amanio]AmanioSe per forza di doglia Di vita un uom si spoglia — la mia vita Dal duol fu tronca in questa dipartita. Ché partendo da voi, dolce mio bene, Ogni riposo, ogni diletto e gioia Le fia converso in sì feroci pene, Che dopo del ritorno fuor di spene Far non potrà che di dolor non muoia. Deh! vivace dolor, fa che veloce M'uccida; ché se aspetti al dipartire, Fia allor cotanto atroce Il duol, ch'io non potrò di vita uscire, E con doppio martire Io morrò poi per non poter morire.[8 Di Nicolò Amanio]Già mi fu un tempo i cieli e la fortuna Prosperi, sì ch'io vivea in alto seggio E hor transcorso ognor di male in peggio, E volto è in mio contrario sole e luna. Ora ogni fato iniquo in ciel s'aduna Per farmi guerra, e indarno aiuto chieggio; O sventurato e miser me, che deggio Far, se non pianger sempre in vesta bruna? Da poi che morte ha scolorito il volto Ch'a tutto il mondo già rendea splendore Ed hammi il mio riposo in terra tolto. Non penso mai che manchi il mio dolore Fin che la terra in sé non m'ha sepolto, E veggia la mia donna e 'l mio signore.Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)